Non capita di rado che mi infastidisca per accadimenti che ho solo ed esclusivamente immaginato.
Quando ero bambino giocavo a calcio con i miei amici in una piazzetta che si trovava proprio di fronte alla nostra scuola elementare. Ora ci torno spesso, solo che i miei ventiquattro anni mi impediscono di stare lì a correre dietro a un pallone, che lo voglia o meno (lo voglio). Uno perché non ci sono più altri bambini con cui giocare, due perché se iniziassi a giocare da solo molto probabilmente spaventerei i genitori.
Ci torno giusto per fumare una sigaretta. Mi siedo su una panchina, apro il mio borsello di pelle sintetica da persona non del tutto affidabile (utile, se vuoi la panchina tutta per te), tiro fuori l’accendino, il pacchetto di Camel e provo un sollievo insostituibile seguito da un pungente senso di colpa che si manifesta nel momento esatto in cui butto la cicca spenta nel secchio della spazzatura. In un universo parallelo penso di avere una storia tormentata di sesso con un’enorme sigaretta parlante che si chiama Elsa. Penso che appena abbiamo fatto l’amore ci ritroviamo tutti nudi nel letto con le coperte stropicciate ai nostri piedi, mi volto verso di lei e con tono scocciato le dico: – Perché va sempre a finire così? – Lei non mi risponde e io per non pensarci inizio a fumare una donna.
Così oggi, in una breve pausa postprandiale, sono uscito per dedicarmi a questo rituale.
All’altro lato della piazzetta c’era un tizio in carne con una felpa della Nike, un paio di joggers grigi e uno zuccotto nero che nascondeva, a mio avviso, una pelata prematura. Stava mangiando un calzone prosciutto cotto e mozzarella. Chi conosce il posto potrebbe dirmi che da quella distanza è difficile arrivare a vedere che cosa c’è nel calzone di qualcuno, ma non è così. Si capisce dall’aura che emana la persona che lo sta mordendo con passione: non è più tra noi, si trova in un cielo di mozzarella filante avvolto in una calda coperta suina. Zuccotto Nero senza saperlo lasciava una scia di nirvana che il leggero vento invernale portava verso di me. Io continuavo a fissarlo con finta distrazione, come se stessi pensando a qualcosa di mio senza badare a dove posassi lo sguardo. La sigaretta era quasi finita e senza alzarmi dalla panchina mi sono messo a cercare una pattumiera o un tombino in cui gettarla. Proprio in quel frangente mi sono reso conto che Zuccotto Nero si stava avvicinando verso di me con passo deciso e allo stesso tempo rilassato. Ho continuato a guardami intorno un altro po’ fingendo di ignorarlo.
Con la coda dell’occhio non ho potuto fare a meno di notare che si era fermato a pochi metri della panchina. Sentivo la presenza del suo sguardo – in una chiara ricerca di attenzioni – solleticarmi la spalla e parte della nuca. Sono stato costretto a dare un taglio a quella farsa e a ricambiare con un lezioso cenno del capo in segno di saluto. Subito dopo mi ha squadrato dalla testa alla mano che teneva il mozzicone, ha sollevato l’avambraccio e mi ha puntato il dito contro scuotendolo come una maestra che rimprovera un alunno indisciplinato. Sorrideva solo con le labbra, senza mostrare i denti. Gli occhi ora fissi sui miei. Poi con un leggero scatto ha mosso il capo verso destra, ha fatto schioccare la lingua sui denti e con una voce lievemente impastata mi ha detto: – Lo sai che fumare fa male? – Io avevo appena espulso il fumo dell’ultimo tiro. Chiunque avrebbe potuto pensare che Zuccotto Nero fosse un attaccabrighe turbato dagli sguardi indiscreti di poco prima o qualcosa di simile. Io invece no. Nel momento esatto in cui ha terminato la sua frase un grumo di ansia mi si è formato tra il cuore e le altre cose che ci stanno sotto. Nella confusione più intensa mi è parso del tutto razionale pensare che Zuccotto Nero non fosse altro che uno scagnozzo pagato da mio padre con il compito di intimidirmi sui danni causati dal tabagismo. Mi tremavano pure gli alluci all’idea di dover scambiare più di due battute con Zuccotto Nero. Quella panchina si era fatta improvvisamente incandescente per me. Dovevo alzarmi. Zuccotto Nero era rimasto nella stessa posizione e tamburellava con la Los Angeles Trainer sull’asfalto. Un’ipotesi formulata con sorprendente velocità, vista la mia condizione psicologica, mi ha portato davanti al seguente bivio: o Zuccotto Nero voleva che buttassi la sigaretta a terra chiedendogli scusa, o che gli rifilassi una giustificazione stupida sul perché stessi fumando in modo tale da consentirgli di dare completo sfogo a quella che sicuramente, secondo le mie previsioni, sarebbe stata una lunga e noiosa predica. Le ipotesi in realtà erano due, ma cercate di capirmi.
Il silenzio glaciale che nel frattempo si stava man mano creando tra di noi non mi ha aiutato a intraprendere la giusta strada. La situazione aveva ampiamente superato i miei personali limiti di sopportazione.
Quell’unico, minimo, passo in avanti che Zuccotto Nero ha fatto verso di me ha spento ogni possibilità di premeditazione su quello che avrei fatto da lì a due secondi. Ho intravisto una lieve traccia di timore nei suoi occhi nell’attimo in cui mi sono alzato di colpo dalla panchina – la cenere della sigaretta è caduta sulla parte inferiore del lembo del mio cappotto – ho stretto il pugno sulla cicca ancora accesa e il bruciore perforante mi ha fatto scendere una lacrima. Zuccotto Nero non mi ha visto però: con un altro movimento repentino mi sono messo di profilo rispetto a lui e con passo disordinato mi sono allontanato fino a dargli completamente la spalle. Mi voltavo a intermittenza verso di lui lanciandogli delle frasi spezzettate. Solo ora mi accorgo di quanto in quel momento avessi la stessa voce stridula che mi usciva fuori da bambino quando cercavo di trattenere il pianto che mi saliva in gola. – Beh di’a mio padre che il gorgonzola non fa mica bene al colesterolo! – questo avrei voluto dirgli, ma non è un problema. Ci sarebbe stato da preoccuparsi se tutto questo non fosse accaduto solo ed esclusivamente nella mia testa.
Domenico Dolcetti