Racconto: “L’ora esatta” di Diletta Crudeli

La prima volta che accadde fu proprio di fronte ai suoi occhi. Stava disegnando triangoli piccoli e grandi sulla tovaglietta di carta gialla del bar, e in seguito si sarebbe sempre chiesto se fosse stata colpa sua, se fossero stati quei triangoli incastrati uno con l’altro a richiamare quella cosa su di loro.
L’orologio sopra il bancone faceva le dodici e trentacinque, ma quando, dieci minuti dopo, aveva preso il suo cellulare per comunicare a lavoro quanto appena successo, quello indicava ancora le dodici e trentacinque. Il giorno dopo, varcata ormai la soglia del buon senso, aveva dovuto ammettere di voler trovare una spiegazione a quella cosa, ed era tornato al bar. La proprietaria gli aveva detto che sì, in realtà l’orologio sopra il bancone era indietro di dieci minuti. Ma questo non cambiava affatto le cose. Perché se anche il tempo non si era fermato, se anche non erano comparsi filamenti biancastri e tentacolari nel cielo, se non era nemmeno un gioco di prestigio, comunque qualcosa non andava, perché quella mattina un intero edificio era scomparso di fronte ai suoi occhi, volatilizzato, come se non ci fosse mai stato.

XIIOO

Al giornale non gli avevano affidato il pezzo. Non si era arrabbiato e non aveva fatto tante storie, sapeva che non sarebbe potuto succedere. Storie del genere le davano alle squadre, a gente che collaborava, che si caricava sulle spalle frammenti della storia per poi lavorare tutti insieme, come piccole formichine. Lui era solo e non era neanche tanto bravo a lavorare in squadra, quindi era rimasto fuori, a guardarli dalla sua postazione. A massimo, avevano detto, verremo a farti qualche domanda, visto che sei un testimone.
Ma gli erano bastate le domande della polizia e di tutti gli altri pezzi grossi che erano accorsi lì nei giorni seguenti. In città non si vedevano tante forze dell’ordine ed esperti da quando avevano trovato quelle bambine incastrate nelle canne fumarie dieci anni prima. Canne fumarie sì, così ricordava.
Lui aveva risposto a tutti nella stessa maniera, senza molto entusiasmo, le sue parole lente come canzoni di un disco monotono.
A nessuno aveva detto del biglietto con il codice però.
Il biglietto con il codice, lo aveva trovato a terra, subito dopo che il condominio, con tutti i suoi inquilini, era scomparso. Era corso fuori dal bar e come tutti gli altri passanti era rimasto stupidamente a bocca aperta, la sua ancora satura del sapore di quell’omelette piena di cipolla.
Quando si dice rimanere a bocca aperta, aveva imparato quel giorno a trent’anni, è vero. Prima che arrivassero i vigili del fuoco e a pensarci bene faceva quasi ridere che li avessero chiamati, come se potessero fare qualcosaera riuscito a trovarsi su quello spazio vuoto, su quella specie di piattaforma anomala creata dalla scomparsa del condominio, e lì aveva raccolto il bigliettino con il codice.
Lo aveva messo veloce nel taschino della camicia.
A casa aveva cominciato a girarselo tra le dita e anche adesso continuava ad ammirarlo, in parte soddisfatto in parte preoccupato; grande come un biglietto da visita, una specie di cartoncino flessibile, ma al tatto quasi viscido, una sensazione che gli faceva un po’ ribrezzo, come prendere una pesca e scoprirne una parte molle e già più scura.

XIIIOO

Quando l’aveva saputo era corso subito sul posto. Era uscito di casa con indosso i pantaloni del pigiama e una felpa, l’aria fredda notturna lo aveva colpito sulla fronte, ma il cielo era così bello. Peccato per le urla; era evidente che non era il solo ad aver visto lo speciale notturno del telegiornale, perché già altre persone erano scese in strada e moltissime erano affacciate alle finestre.
Aveva preso la bici e aveva cominciato a pedalare sempre più veloce. Adesso, ripensandoci, avrebbe potuto sottolineare, con la precisione di un righello, tutti i suoi gesti sospetti, quelli che mostravano come lui fosse in qualche modo collegato a quella strana storia, che a molti sembrava ancora uno scherzo, ma a lui appariva sempre di più come il velo che si scosta, ovvero l’apocalisse.
Era sparito il supermercato. Quando arrivò sul posto si rese conto che forse era già troppo tardi. Uomini circondati da nastri, addirittura qualche tizio in giacca che sembrava uscito da un film di fantascienza. Non sembrava vero, era tutto assurdo. Una donna piangeva, urlando che di certo doveva essere uno scherzo.
In mezzo alla confusione, mentre sgusciava tra schiene in divisa e giornalisti, e sempre più vicino sentiva il rumore di un elicottero, l’unico pensiero che continuava a martellargli in testa era quando sarebbero cominciati ad apparire i primi predicatori, e se non fosse compito suo farne parte.
Mentre con occhi tondi e lucidi fissava il niente, lo spazio vuoto e buio dove una volta c’era un supermercato, dove lui stesso andava almeno una volta al mese perché solo lì avevano il cibo adatto per il suo gatto diabetico, proprio quando stava per alzare lo sguardo verso l’elicottero che cominciava a svolazzare patetico sopra le loro teste, con la coda dell’occhio vide un bigliettino a terra, vicino al tacco nero lucido di una giornalista.
Se lo mise in tasca.

XIIIIOO

Con due biglietti era palese che non si era sbagliato. Era un codice, erano messaggi lasciati da quella cosa che aveva fatto sparire, con silenzio ovattato e precisione, già due edifici in una città che non aveva niente di particolare, di muscolare, di volgare.
Si meritavano l’apocalisse? Ormai la notizia si stava diffondendo un po’ ovunque, anche in posti molto lontani, così qualcuno aveva pronunciato la parola magica, qualcun altro aveva cominciato a tingere pareti con teorie, e lui stesso stava dietro a ogni insinuazione, provocazione, monologo che annunciava che quella era la fine del mondo e non stava certo arrivando come potevano aspettarsi.
Mentre molti urlavano e pochi altri ormai continuavano a credere che fosse davvero uno scherzo, magari una trovata pubblicitaria, certo di cattivo gusto, le persone che avevano un po’ più di senso pratico si affaccendavano intorno a grafici e statistiche per capire se sarebbe scomparso qualcos’altro, e se soprattutto fosse il caso di evacuare quella cittadina.
La risposta era sì, ma una fazione che aveva parecchie voci al suo interno e che si era formata molto in fretta, come tutte le cose senza alcun senso logico, sosteneva che l’obiettivo della misteriosa entità fosse di portare via gli abitanti. In breve, suggerivano a voce alta che i cittadini diventassero succulente esche, come se quelle ventisette persone, i venticinque all’interno del condominio e le due guardie giurate di turno al supermercato, non fossero una quota di scomparsi già abbastanza preoccupante.

Mentre sfrecciava con la bici a tutta velocità lungo il viale alberato che costeggiava casa sua, immaginò che quei simpatici scienziati fossero contenti: in quel soleggiato lunedì mattina era appena scomparso l’ufficio postale.
Era abbastanza vicino a casa sua e le forze dell’ordine erano riuscite a tenere la situazione abbastanza sotto controllo, così quando arrivò lì c’era poca gente, molti ragazzini più che altro, che erano evasi dalla scuola media di fronte per godersi lo spettacolo, e una professoressa che provava inutilmente a riportarli all’ordine, soprattutto perché piangeva come una disperata, lanciando occhiate alle fondamenta di quello che era stato l’ufficio postale. Al momento della scomparsa conteneva almeno quindici persone.
In mezzo a poche urla isteriche e a sneakers adolescenziali, trovare il biglietto fu una passeggiata.

XIIIIIIOO

Una storia abbastanza buffa su dei vermi piatti che almeno dieci anni prima erano scomparsi da un centro di ricerca, un ragazzino che diceva di poter spostare gli oggetti con la mente, esperimenti con le particelle, particelle di tutti i nomi, libri di fantascienza e predicatori ovviamente, politici infuriati, politici ottimisti, bambini spaventati e neonati che ancora non capivano niente ma i cui genitori si chiedevano se avrebbero mai potuto prevedere una preoccupazione del genere. E nel mezzo manifestazioni, programmi televisivi, giornalisti a bloccare le strade, giornalisti e pezzi grossi, forse la CIA? Forse quelli che si occupavano di alieni addirittura, che infestavano le strade, perché ormai era chiaro che avveniva tutto in quella cittadina, in quella città di quarantadue chilometri quadrati, una buona parte dei quali di stremata campagna, con qualche vecchio casolare a fare da gufo nel buio, il problema era lì con il suo mistero: tanto valeva chiamarlo così, perché nessuna di quelle persone aveva la benché minima idea di cosa stesse accadendo, nonostante ricerche, indagini, preghiere, esorcismi, esperimenti, testimonianze o accuse.
Lui però continuava ad avere in testa quei triangoli che aveva tracciato sulla tovaglietta gialla, si chiedeva se davvero fossero stati un richiamo, ma sapeva di sentirsi in colpa per la cosa sbagliata. Il vero problema era che avrebbe dovuto consegnare quei bigliettini fin da subito e invece se li era tenuti per sé. Adesso era tardi e sapeva che non li avrebbe mai dati via. Nemmeno l’ultimo, che riuscì a raccogliere davvero per il rotto della cuffia. Lo raccolse da terra nel punto esatto in cui fino a venti minuti prima stava il negozio di elettronica più grande della città.
Poco più in là un uomo con la divisa del negozio piagnucolava in ginocchio sul cemento, stringendo un cappello di lana tra le mani. Era uscito per fare un salto a casa. Non riusciva a capacitarsi di essere riuscito a salvarsi, di aver avuto tanta fortuna. Cominciò a biascicare che la fine del mondo era arrivata e che avrebbe punito solo i colpevoli. Non aveva il coraggio di urlarlo. Probabilmente lui stesso sapeva che non aveva senso, e che si era salvato soltanto per un caso.
Mentre lo osservava, notò qualcosa vicino al ginocchio dell’uomo. Un altro biglietto, un secondo biglietto nello stesso luogo!

Si accoccolò vicino a lui e con la scusa di posargli una mano sulla spalla lo raccolse.
Era ancora caldo, come se fosse stato messo lì proprio in quel momento da una mano invisibile.
E doveva essere davvero così, visto che fino a qualche secondo prima non c’era.

OO˙˙˙˙˙

I triangoli non significavano niente. Si era riempito la testa di informazioni insensate e di colpe che non erano le sue. Certo, ancora non sapeva dire chi fosse, a quale universo, mondo o addirittura specie appartenesse chi aveva fatto sparire ben quattro edifici, smantellandoli senza clamore, semplicemente cancellandoli da quel piano del reale. Ma non era stato difficile, con la mente lucida per un secondo, capire cosa significavano quei biglietti, che adesso si sentiva di poter definire ricevute. Il nocciolo della questione stava in quei cerchietti finali, che dovevano stare a simboleggiare il luogo. Significare insomma qualcosa tipo: operazione X, numero I, luogo OO.
Aveva senso? Nella sua mente sì, e ci era arrivato senza tante capriole, restando fermo e con un pensiero fermo, come se la risposta fosse sempre stata davanti ai suoi occhi.
Aveva senso non perché lui volesse trovarne uno a tutti i costi, ma perché quei puntini sull’ultimo biglietto provavano che era così. Non dovevano essere altro che piccoli punti esclamativi, interiezioni di rabbia, un avviso. O una scusa magari.
Qualcosa che insomma alla fine voleva soltanto dire: qui, adesso, annulliamo tutto. O meglio, ci fermiamo. Perché che fosse stata colpa di una forza che agiva fuori dallo spazio e dal tempo, o di esseri dalle membra rigide o molto molli, menti costruite da cubi, portali o frattali, streghe, alieni, l’apocalisse era stata un’apocalisse sbagliata.
Chi aveva fatto sparire tutte quelle cose e quelle persone, con metodica precisione e addirittura lasciando ricevute a operazione conclusa, aveva fatto un errore. L’ora poteva essere esatta ma il luogo era quello sbagliato.
Sapeva che probabilmente non avrebbero riportato indietro ciò che si erano presi, del resto così va la burocrazia. Ma almeno non sarebbe scomparso nient’altro, il tempo gli avrebbe dato ragione.
Era stato bravo a interpretare quei biglietti. Adesso poteva tirare un sospiro di sollievo. Quei triangoli non avevano mai significato niente.

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