L’estate è bella, niente da dire, per carità; anche l’autunno, però, soprattutto a Roma, spacca.
Certi giri in bici del lunedì, in maniche corte, seguiti da “libro con sole in faccia, fronte laghetto”, hanno un loro indiscutibile primato, e per motivi tanto evidenti e noti che non ci sarà alcun bisogno di dilungarmi in insopportabili descrizioni sulle foglie gialle e rosse, il cielo terso, immobile e un po’ pesante, le anatre e i cigni e, non da ultimo, un silenzio più irreale di quello estivo; quel silenzio in cui voci umane e animali sembrano echeggiare in maniera lontana anche da vicino, per motivi acustici che ignoro. Punto.
Mi trovavo immerso in tutto questo, ringraziando il processo che aveva permesso alla specie umana e, quindi, a me fortunatissimo e grato, di poter apprezzare al meglio tali circostanze atmosferiche, climatiche e faunistiche, quando improvvisamente, sulla panchina a fianco alla mia – a meno di dieci metri – si è seduto un uomo che recitava petulante al telefono la parte dell’intellettuale, infrangendo l’incanto come una sassata su un vetro istoriato di Westminster.
Il signore, ho pensato, è nel suo diritto. Egli ha il diritto di parlare al telefono. Ha il diritto di parlare di pubblicazioni, sembra, universitarie, ha il diritto di lodare l’autore che sta per essere pubblicato. Ha il diritto di definirlo un “filologo del sentimento amoroso”. Ha il diritto di ricordare al suo interlocutore, quanto egli abbia “caldeggiato” questa pubblicazione… sì, ne ha il diritto, ho pensato. Eppure non mi sembra abbia il diritto di urlare, mi sono detto – come se a lui, solo perché impegnato in ambito editoriale – e il tono della sua voce, la spocchia e la dotta sufficienza ne certificavano la convinzione – fosse concesso questo e altro, e fossimo tutti accorsi al parco solo per ascoltarlo.
Ma a quel punto ecco l’imponderabile, l’epifania, il miracolo: due bellissimi, benedetti e abbronzantissimi angeli con gli occhiali scuri – angeli, ne sono sicuro – sono atterrati alle mie spalle e si sono palesati proferendo un adamantino e glorioso: “aò, ma che cazzo sta di’ questo?”
Ho osservato quello che sembrava aver parlato, cercando di capire se si riferiva sul serio al mio uomo; non perché, in quel silenzio irreale, la cosa fosse equivocabile, ma solo perché raramente si fa esperienza di interventi celesti tanto tempestivi.
Ascoltarli poi commentare tra loro con divertita nonchalance lo strazio di essere costretti a subire quello sguaiato e teppistico sproloquio – “sta a rovina’ tutto… tocca annassene” – mi ha quasi commosso. Volevo abbracciarli, sentivo che erano stati mandati affinché mi sentissi libero di maledire il damerino ora, per la prima volta, dopo dieci minuti di cazzate, in silenzio.
Poco dopo, andandomene, li ho ringraziati. E loro, modesti, hanno finto di non capire perché. Hanno sorriso come se fossi anch’io un po’ scemo. Forse perché avevo voluto condividere con loro un paio di altre cose dette dal nostro uomo prima che arrivassero. Citando, oltre a espressioni come “nel contempo” o “ne consegue” anche una sfacciata filippica contro “la gente che pontifica”. Dettagli che, a mentori tanto leggeri, puntuali e pragmantici, devono essere sembrati altrettanto inopportuni, di fronte al sole sul lago, il silenzio con l’eco, le anatre ecc. ecc. ecc.
[* “Crudismi” è una rubrica di Davide Predosin]