Speciale Halloween 2019: “Tutti questi funghi” di Jacopo Marocco

Se ho avuto fortuna, e tu stai leggendo queste parole, c’è solo una cosa che devi fare ora: scappare. Non fermarti a leggere tutto adesso, ma prendi questo foglio e vattene, prima che mio nonno ti trovi. Allontanati il più possibile da questo posto e, solo allora, leggi con calma fino alla fine. Cerca di capire bene cosa mi è successo, cosa succede qui e poi spiegalo ai soccorsi, ai giornali, al mondo. E non sognarti di venire a salvarmi tu, da solo, perché faresti una brutta fine, te lo assicuro, così come ti garantisco che ciò che leggerai è tutto vero.
Un’ultima cosa: so che avrai difficoltà a leggere per colpa della mia calligrafia – che poi non è proprio la mia, cioè sì è la mia, ma di quando ero bambino, ecco perché è così – però ti prego fai uno sforzo. E salvami.

Lactarius sanguifluus. Un fungo autunnale che al taglio rilascia un latice rosso-sangue e che, nella mia città, Spoleto, tutti chiamano il Sanguinoso. Ottimo arrosto o per farci il sugo, i miei concittadini ne vanno pazzi. Me compreso. Nel resto della regione, e per quanto ne so nel resto d’Italia, nessuno è così ghiotto di questo fungo come noi spoletini. Non ne conosco la ragione e magari se mi tiri fuori da questo bosco e da questo incubo posso dedicare la mia vita a scoprirlo. Il punto è che che anche mio nonno, all’arrivo dell’autunno, non resisteva alla febbre della ricerca del sanguinoso. Mi portava quasi sempre con lui e così questa sua passione divenne ben presto anche la mia. Quando poi un ictus lo limitò nei movimenti e lo costrinse a stare su una sedia a rotelle, continuò a vivere l’emozione della raccolta dei funghi tramite me. Quando tornavo dal bosco, gli mettevo in mano il canestro e, mentre lui con la mano funzionante tirava fuori e ammirava uno per uno i funghi che c’erano dentro, io gli raccontavo tutti i dettagli dell’uscita. “Che darei per tornare a raccoglierne uno, che darei per tornare alla tua età” mi ripeteva sempre.
Un pomeriggio, uscito da lavoro, andai a dare uno sguardo in un bosco in cui non ero mai stato, per vedere se riuscivo a trovare qualcosa. La stagione prometteva bene, ma non potevo immaginare di trovare tutti quei funghi anche a pochi passi dalla macchina. Decisi di non raccogliere nulla e di fare una cosa che, ora lo so, non rifarei mai più. Andai a casa e, senza dire niente a nessuno, caricai nonno e la sua carrozzina in macchina e lo portai nel bosco. Sapevo che stavo facendo qualcosa di rischioso e stupido, ma allo stesso tempo pensavo che glielo dovevo: l’ictus si era già preso più di metà del suo corpo, nessuno poteva sapere quando qualcos’altro si sarebbe preso tutto il resto. Tanto valeva dargli quell’ultima gioia.
Non gli spiegai dove stavamo andando, né lui mi chiese qualcosa, ma capì subito quando prendemmo la strada sterrata. Una volta arrivati, lo sistemai sulla sedia a rotelle e mi diressi verso gli alberi. Scelsi un punto abbastanza pianeggiante e quasi privo di ostacoli. Già a ridosso della macchia c’erano decine di sanguinosi, così mi fermai, tirai su il nonno dalla carrozzina e lo adagiai a terra in modo da farglieli raccogliere in autonomia. Lo vidi sorridere come non lo vedevo da tempo, anche la parte di faccia paralizzata per un attimo sembrò cedere al piacere di quella sorpresa. Mi accorsi di non aver preso il canestro, né il coltello per tagliare i funghi. Tornai alla macchina. Il sole stava tramontando e in poco tempo la luce diminuì in maniera notevole. Sentii una specie di sussurro che mi provocò un brivido tale da farmi quasi perdere il controllo della vescica. Mi girai di colpo, guardando verso il bosco e, tra gli alberi, la vidi. Una luce chiara e compatta che dal terreno si ergeva maestosa verso il cielo. Sembrava una enorme colonna di marmo bianco. A ridosso del fascio di luce c’era una sagoma scura, un uomo. Tornai di corsa dove avevo lasciato il nonno, ma di lui c’era rimasta solo la sedia a rotelle. Lo chiamai più volte, ma non rispose.
La penultima cosa che ricordo di quella sera fu la sagoma di mio nonno, in piedi, senza nessun aiuto, che entrava in quella luce per esserne del tutto inghiottita. L’ultima cosa che ricordo, invece, è quella luce che inghiottiva me.
Non so quando tempo è passato da quella sera. Quel che so è che la luce ci ha cambiati. Ha cambiato me, ma soprattutto ha cambiato il nonno. Dopo che ci ha inghiottiti, non so cosa sia successo. Ricordo solo che poi mi sono ritrovato nel bosco, ma era giorno. E non ero più io. Cioè, ero io, sì, ma nel corpo di un bambino di quanti? Sei? Sette anni, al massimo. Ero nudo, ma non avevo freddo. A pochi metri da me c’era un estraneo, un tipo sulla trentina, nudo, che si stava masturbando appoggiato a una pianta. Non si era accorto di me, così quando mi resi conto della situazione e urlai, il tipo smise di toccarsi e divenne tutto rosso in viso. Cercò di coprirsi mettendosi dietro un cespuglio. “Che figura! Che figura!” ripeteva di continuo. Si scusò chiamandomi per nome.
Lo guardai incuriosito.
“Non mi riconosci?”
“Dovrei?” chiesi, e il suono della mia voce da bambino mi spaventò più del trovarmi lì con un maniaco sessuale coperto a malapena da un arbusto.
“Non riconosci il nonno?” disse sorridendo.
Lo guardai e scossi la testa.
Allora il tizio fece una cosa che mi gelò: imitò lo sbuffo del cavallo. Era un verso che faceva sempre mio nonno perché mi divertiva molto, qualcosa che sapevano fare in pochi, anzi, per quanto ne sapevo era l’unico che sapeva farlo.
“Nonno?” domandai titubante.
L’estraneo sorrise.
Provai a dire qualcosa, senza riuscirci. Mi veniva solo da piangere.
“La luce! Quella luce!” urlò il nonno all’improvviso. “È miracolosa! Guardami, cammino! E sono  pure tornato giovane!”
Fece una pausa, poi, guardando verso i propri genitali, aggiunse: “Mi sento così potente!”
Ricordo quasi con affetto lo scambio che avemmo quel giorno, perché poi non c’è mai più stato un momento così, come dire, tranquillo. Il resto è stato solo follia, terrore e sangue.
Il ritorno della potenza sessuale lo ha come assuefatto. Per un po’ di giorni se n’è stato tutto il tempo a toccarsi come un scimmietta. All’inizio ha avuto il pudore di nascondersi, poi piano piano neanche quello. Giorni interi con quell’affare in mano, senza mai dargli una tregua. Poi sono arrivate quelle signore. Le Signore del bosco, le chiama il nonno passandosi la lingua sulle labbra. Vengono di notte, quando non c’è la luna. Arrivano nude con indosso solo una corona di spini sulla testa. A volte sono tre, a volte di più. Di solito portano qualcosa o qualcuno da sacrificare alla luce: che sia un capretto o una persona, scannano la vittima, si spargono il sangue addosso e poi buttano il cadavere ancora caldo in quel bagliore. E poi fanno sesso col nonno per tutta la notte. Io sono costretto ad assistere a tutto, perché è la luce che lo vuole.
Ho chiesto più volte al nonno di andarcene e lui mi ha sempre risposto che non è mica scemo. Qui è tornato a camminare, a essere giovane e vigoroso. Qui non ha freddo, e non ha fame perché c’è la luce che lo scalda, la luce che lo sfama. “E poi i funghi” mi dice sempre guardandosi intorno, “dove li ritrovi tutti questi funghi?”
Ho provato così tante volte a scappare, ma se non è il nonno che mi trova – e ogni volta è così umiliante perché poi per punirmi mi sculaccia – allora è lei, la luce a trovarmi.

Il ragazzo che hanno sgozzato poco fa aveva con sé un taccuino, l’ho trovato nel suo zaino. Un vero miracolo dato che non ne passa molta di gente da queste parti, soprattutto con dietro carta e penna. Ho scritto queste righe approfittando dell’ennesima orgia, ora spero solo di avere un po’ di fortuna. Sia per me, che per te.
Ora, se sei arrivato a leggere fino a qui, hai seguito i miei avvertimenti e sei in un posto al sicuro, sai cosa devi fare. Ma se invece non mi hai dato retta e hai letto tutto rimanendo nel bosco, magari pensando che sia tutto uno scherzo, allora ho un consiglio da darti: se senti lo sbuffo di un cavallo, non voltarti, scappa.

(Jacopo Marocco)

One comment

Leave a comment