“Lo specchio ovale” di Marco Tosi

─ Dove vanno a finire le immagini riflesse nello specchio? Me lo chiedo spesso.
Mi alzai a sedere sul letto, incrociando le gambe. Giovanni continuò a radersi con attenzione. Mi piaceva guardarlo mentre si radeva e non iniziavo mai una conversazione finché non avesse finito. Stavolta però aveva iniziato lui, perciò risposi.
─ Pensi che si conservino in qualche modo? È questo che intendi?
Giovanni cercò il mio sguardo e annuì. Poi posò il rasoio e si sciacquò con cura. Infine, asciugandosi le guance, portò avanti il suo ragionamento.
─ Mi ha sempre affascinato l’idea che ogni specchio trattenga le immagini di tutte le persone che gli sono comparse davanti, da qualche parte, per sempre.
─ Mi sembra un’idea bislacca ─ risposi.
Giovanni si voltò a guardarmi.
─ Perché non potrebbe essere così, Marta? In fondo quale prova abbiamo del contrario? Ti sei mai chiesta perché è un tabù rompere uno specchio?
Lo osservai. Si era lievemente accalorato. Aveva posto l’argomento in modo leggero e ora tremava in modo quasi impercettibile. Stava cercando di dirmi qualcosa. Continuò a parlare, mentre applicava il dopobarba che gli avevo regalato.
─ La prima volta che ci ho pensato è stato un paio di mesi fa, quando entrammo in quella vecchia casa che volevamo comprare, ricordi?
Annuii. La casa era un ex convento isolato, che si affacciava sul fiume. In cattive condizioni, certo, ma bellissima. Gli era piaciuta tanto, ma mi ero opposta alla sua intenzione di prenderla. Avevamo discusso forte quella sera, e avevo fatto fatica a convincerlo che sarebbe stato un inferno viverci, umida, le pareti annerite dalla muffa, e quell’odore… sarebbe stata una battaglia persa.
─ Bene, forse ci avrai fatto caso, c’era quello specchio ovale, lungo fino a terra, con la cornice di legno spessa, ti ci potevi specchiare per intero. Eravamo proprio là davanti, quando abbiamo detto no, non ci interessa. Ricordi?
Guardai Giovanni, era diventato improvvisamente serio e lo sguardo ora era fisso di fronte a sé. Faceva fatica a raccontare, lo sentivo. Risposi di sì, ma non avevo conservato dei ricordi così precisi di quel giorno.
─ L’agente immobiliare aveva cacciato un sospiro e insomma in quel momento, non so come spiegarlo, ho sentito che lo specchio ci guardava, oppure era qualcuno o qualcosa che ci osservava, dallo specchio. Non prendermi per matto… ma quando siamo usciti, ricordi? Sono uscito per ultimo, perché l’agente ti aveva accompagnato fuori per farti vedere il giardino, il suo ultimo tentativo, e io mi sono voltato e nello specchio c’eri ancora tu, eri riflessa proprio al centro, ma non era possibile, perché eri già fuori.
Tremava, era pallido. Mi avvicinai, gli presi una mano fra le mie.
─ Sei molto stanco, lo sai. E poi… perché solo io?
─ Non c’eri solo tu. Voglio dire, io non c’ero, ma non eri sola. Erano arrabbiate.
Giovanni si guardava le mani. Erano accostate l’una all’altra, come se pregasse. Mi ricordai improvvisamente della sua espressione tirata, quando quel giorno ci aveva raggiunto all’esterno, in giardino, correndo.
─ Giovanni che vuoi dire? Chi altro c’era? ─ alzai la voce.
─ Non lo so, nel senso che non le conosco, non le avevo mai viste prima.
─ Non le conosci? Ma di chi parli? Quanti erano, posso saperlo?
─ Marta, non so spiegartelo. Dietro di te c’erano altre persone riflesse. Ero tornato indietro, mi ero avvicinato allo specchio per controllare e tu eri là, e avevi quello sguardo sgomento, e accanto e dietro di te c’erano quelle donne. Alcune guardavano verso di me, altre ti… ti squadravano, ti esaminavano, o almeno sembrava così.
─ Due mesi fa, e me lo dici solo oggi? ─ scesi dal letto, mi allontanai di un paio di metri. ─ Giovanni, perché solo oggi?
─ Perché dopo non è più accaduto nulla del genere. Fino a ieri.
Lo guardai, era pallidissimo, quasi cereo. Si avvicinò in silenzio, ora aveva delle profonde occhiaie scure. Fece alcuni passi verso di me, guardando in basso, assorto, come se stesse ascoltando una voce interiore. Sedette sul bordo del letto. Senza rendermene conto mi allontanai ancora, avvicinandomi alla porta del bagno. Ora le nostre posizioni iniziali si erano invertite.
─ Giovanni, per l’amor di dio, che succede? Che vuoi dire con questo? Ieri cosa? Arrabbiate chi?
Giovanni aveva alzato gli occhi da terra e mi guardava, confuso. Poi strinse i pugni e sollevò lo sguardo, ora fissava qualcosa alle mie spalle. Guardava lo specchio del bagno.
─ Loro. Ci hanno trovato.

Mi voltai ed erano lì. Ci guardavano in silenzio e si muovevano lentamente, in quel piccolo spazio circoscritto dalla cornice di ceramica azzurra. Rimasi impietrita e mi sorpresi a pensare che potessero uscire e unirsi a noi, ma i loro sguardi e i loro movimenti mi sembrarono escludere questa possibilità, pur essendo così reali. Quattro di loro erano pressoché ferme al centro dello specchio, mentre altre due, alte e magre, si affacciavano e scomparivano dietro quei margini, con un fare che trasmetteva una sensazione di nervosismo, di impazienza. Percepii con chiarezza che cercavano di mettersi in contatto con Giovanni e me, o forse solo con me. Mi girava la testa. Spensi la luce.
─ Marta, le hai viste? Sono loro, ne sono certo.
─ Non so di cosa parli, Giovanni. Non ho visto nulla. Devi riposare, sei esaurito.

Raccolsi le mie cose e uscii dalla stanza. Lo sentii singhiozzare. Non sapevo cosa fare. Presi le scale, scesi in strada ed entrai in macchina. Appena avviai il motore cominciai ad avere paura. Per me e per lui. Rimasi ferma, l’auto in moto, il freno a mano tirato. Poi avvertii di nuovo quella sensazione di impazienza, di urgenza. La sentivo in me e intorno a me, occupava lo spazio disponibile nell’auto, fino a saturarlo. Una melassa densa che mi avvolgeva completamente, pur permettendomi di respirare. Alzai lo sguardo verso lo specchietto retrovisore. Ero lì, i miei occhi spauriti, il trucco sciolto e subito intorno, piccole di dimensioni ma ben distinguibili, tre di loro. Due le riconobbi, la terza era diversa, i capelli rossi, gli occhi azzurri. Spensi il motore, ma non funzionò.
Uscii dall’automobile e rientrai in casa. Presi l’ascensore, senza riflettere. Lo specchio interno si popolò in pochi istanti. Fissai il pavimento, fino al piano. Giovanni era seduto a terra, la testa fra le mani.
─ Non è da ieri, giusto? È da più di un mese che sei strano, me ne rendo conto davvero solo ora. Giovanni, da quanto va avanti questa storia?
─ Allora le vedi anche tu? Dimmelo, non sono impazzito.
Si alzò da terra e di nuovo unì le mani, come se pregasse. Un gesto nuovo, che gli vedevo fare per la seconda volta da quando lo conoscevo.
─ Forse lo siamo entrambi. Non so che dire. Ho bisogno solo di sapere, neanch’io so perché, da quanto tempo.
─ Da quel giorno. Le vedo da quel giorno. Ma fino a ieri qui non le avevo mai viste.
Quella notte non chiudemmo occhio. La mattina dopo decidemmo di tornare alla casa lungo il fiume.

Non c’era più, solo un rudere, due mozziconi di pareti ancora in piedi, annerite dal fuoco. Sul greto un pescatore, ci osservava. Quando ci avvicinammo indicò l’acqua e fece segno di fare silenzio.
─ Il convento? È venuto giù un mese fa. Poi son venuti a curiosare tra le macerie, hanno portato via un paio di cassettoni, gli unici due mobili ancora interi, poche cose. E poi qualche balordo ha dato fuoco a quel che era rimasto, fotografie, vestiti. Mi fa strano ora, era lì da sempre. Era disabitato da almeno cinquant’anni, credo. L’ultima suora era morta allora. La diocesi l’ha affidato a una agenzia, negli ultimi due-tre mesi hanno provato a venderlo, ma chi se lo sarebbe preso mai, ridotto com’era?
Tornammo in città, in silenzio. Togliemmo lo specchio grande dalla camera da letto, e quello in salotto. A quello in bagno non riuscimmo a rinunciare. Imparammo a convivere. Ci volle qualche mese, ma trovammo infine il coraggio di ricominciare a invitare a casa amici e parenti. Fin dalla prima visita fu chiaro che nessun’altro le vedeva. Non lo confessammo a nessuno, mai. Poi un giorno Alice, la figlia di mia cugina, disse che aveva paura, che c’erano le streghe in bagno. Aveva quattro anni allora, la mamma si scusò e se la portò via. Non li abbiamo più invitati. Per sicurezza non abbiamo più invitato nessuno.

Abbiamo venduto la casa, ma non è servito a niente. Perché noi? È la domanda che ci accompagna da allora. Ora sono incinta, viviamo in una casa senza specchi, senza ascensore, abbiamo rinunciato all’automobile. Ne sono certa, ce la caveremo.

Marco Tosi

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