“GraveYard” di Antonio Francesco Perozzi

Faccio tap due volte per lasciare dei fiori. L’icona della rosa si accende per mezzo secondo; poi il 1067 lì accanto si trasforma in 1068. Ora il profilo biondo di Niccolò, la stella sulla giugulare, mi sembrano più chiari dentro il cerchietto grigio, più familiari. Vedo i suoi gomiti strappare all’indietro, le mani che storcono il volante a sinistra, gli occhi fessure, la testa di lato, prima che la portiera si pieghi sullo spigolo del casale e i talloni si stacchino dai pedali, la cintura diventi un cappio e i vetri spilli sulla faccia. Non so se è andata così. RomaToday allega la foto di una Clio 14 aperta sul fianco del passeggero, gli airbag esplosi e i catarifrangenti della protezione civile intorno. Il resto l’ho immaginato.

La primavera trascina gente lungo il Corso, con la finestra aperta sembra di averla in stanza. Invece la borraccia petrolio, il manuale aperto sulla scrivania e la gruccia appesa alla maniglia dell’armadio sono muti. L’unico messaggio è il programma settimanale della raccolta differenziata inchiodato alla porta, e la calligrafia di Pino che appunta sulla casella del vetro: A SETTIMANE ALTERNE. Mi ricorda che ho lasciato il secchio di sotto, ma non ho proprio voglia di scendere: il sopracciglio tagliato di Manuel mi riporta su GraveYard, sui 1371 fiori sotto la stringa IN MEMORIA DI MANUEL TOFANI, i link a Instagram e TikTok, la sfilza di amen e rip in pace che si spalanca quando clicco sull’icona della tomba, i selfie incorniciati in un’aura viola, un video del ragazzo che gioca a calcio con sovrimpressa l’emoji delle mani giunte. Mi chiedo se quando creperò io – per infarto, credo, come mio nonno e mio zio – avrò tante reactions quanto questo Manuel; ma mi vergogno subito del pensiero. Striscio il pollice verso l’alto, torno su Instagram.

Non conoscevo nessuno dei quattro. Ho solo presente il casale su cui si sono schiantati, ieri notte, e questo me li avvicina: con i reportage di RomaToday e del Corriere mi sembra di ripercorrere la Tiburtina, superare il cavalcavia dove qualcuno durante il lockdown ha scritto HO PAURA DI USCIRE con mano larga ma tremolante, poi il Conad e il benzinaio, e alla fine quello stabile che fa angolo, e sopra cui non riesco a non vedere, adesso, le gole di Manuel, Niccolò, Giorgia, Marika che si contraggono e sciolgono di colpo solo con l’impatto. Mi dico così, che avrei potuto essere io a sfracellarmi sul muro, un giorno di questi, con la Fiesta, pur di non riaprire Storia economica, e di rimanere ancora un po’ su GraveYard, memorizzare i cognomi dagli articoli di cronaca e cercarli nel cimitero.

IN MEMORIA DI MARIKA SANELLI, 2065-2082. I fiori arrivano a 12353 e sono 634 i visitatori online che girano intorno alla tomba. Lasciano un fiore ogni sette secondi circa, il numero si trasforma sotto il cerchio in cui Marika appare strafiga – questi occhi castani, queste labbra appena aperte dentro il colletto del North Face nero, il gazometro di Piramide sullo sfondo. Incrocio signore che postano un amen sotto la tomba, «non si può morire così……», «povera bambina!!», «ora sei una angelo veglia sui nostri Figli». Quindi vado sulla lapide e trovo i link a Instagram, TikTok, Space-Cadet, OnlyFans. Ci penso qualche secondo. Flash delle guance di Marika che si squarciano quando la stecca dello sportello le entra in bocca, flash della cintura che diventa una frusta, dei gomiti sollevati che si fracassano sul parabrezza. Poi clicco. L’anteprima dà Marika seduta sul letto, intimo carne. Il primo sguardo mi va sulla parete che separa la stanza di Pino dalla mia; ma mi ricordo che è al lavoro. Allora impiego un secondo e mezzo per alzarmi, chiudere la finestra, sentire le voci del Corso ovattarsi di netto, tornare sul materasso, schiacciare due volte il + del volume. Quando faccio tap sul Play, Marika inizia ad accarezzarsi le gambe, geme, io sento i jeans indurirsi. Non sono abbonato e per me c’è solo questa clip di tre secondi in cui lei si sfiora le cosce, infila una mano nelle mutande e basta. E perciò la riguardo, la riguardo, la riguardo, la riguardo, finché la scena di lei sotto di me non si mischia con quella di uno sperone in acciaio che le trapassa lo stomaco, quella di lei nuda di schiena col momento in cui il cruscotto le sbriciola i femori nel bacino. Chiudo.

Quando ero piccolo mia nonna (credo fosse lei) raccontava che una volta in ogni città c’era uno spazio dedicato ai morti, una sorta di GraveYard reale che potevi girare a piedi, con i cadaveri murati in specie di palazzine, ognuno nel suo quadrato, con le date e le scritte d’affetto dei parenti – proprio come sulle lapidi del social. La gente vagava dentro queste città di morti e lasciava rose nei vasi, portava acqua per i gerani. Questi racconti mi hanno sempre inquietato. Immagino la puzza dei corpi, l’angoscia di camminare in quartieri abitati solo da cadaveri, e anche l’imbarazzo di incontrare qualcuno durante una visita, il non poter rallentare di fronte a una targa per timore di essere visto. Invece con GraveYard – quello vero – ognuno fa come desidera, si ferma sulle tombe di chi vuole e ha rapido accesso ai loro profili. La storia libera gli uomini dalla paura, mi dico mentre mi alzo dal letto, e sono felice di ricordarmi qualcosa del manuale, almeno. Poi quando riapro la finestra mi appare il Corso in piena domenica, le voci, le facce spolpate degli zombi.

Antonio Francesco Perozzi

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