“Orfeo e la sirena” di Antonio Vangone

Lo vede aspettare sulla banchina e si chiede se è lui –  sa già che è lui – non è lui, lui era più basso – forse erano le felpe nere sbiadite o il capo sempre chino –  come si chiamava? –  prima era lui quello fuori posto, quello con cui nessuno parlava – ricorda il moto di stizza che la prendeva quando si inseriva nei loro ritorni – quelli a cui ha deciso di sottrarsi – se scende a Dante è lui – spera non sia lui – il treno fischia e stride, la sirena urla di allontanarsi dalle porte – si fanno largo nello stesso vagone – si siede e posa sul pavimento la busta di plastica che teneva in mano – bianca, rettangolare, reca il nome di un negozio di abbigliamento – cosa contiene? Un camice? – se si è seduto non vorrà scendere alla prima fermata – non scende, ma nessuno scende mai a Rione Alto – o alla seconda – non scende, ma nessuno scende mai a Montendonzelli – sperava nelle fermate del Vomero, dove c’è il più grosso ricambio prima del centro storico – nulla – ha ancora lo stesso taglio di capelli – Materdei, Museo – nulla – va bene anche se è lui, ormai l’importante è che se ne vada, che sparisca – Dante, tre ragazzi e una vecchietta ondeggiano fino alle porte – si alza, è lui, adesso ne è certa – come sette anni prima, prenderà la Cumana – se ne lamentava sempre, ci mette un’ora per tornare a casa –  le passa di fianco –  si ferma un attimo – l’ha guardata? – la sirena torna a strillare, lui si affretta a scendere. Si sente salva senza un motivo.

Antonio Vangone

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