“Fantasmi” di Giuseppe Fiore

Busso, sono le sette e mezza. Indosso un pantaloncino nero, vans, maglietta bianca. Nessuno mi apre, suono il campanello. Odio suonarlo perché fa un rumore assordante. Dopo poco mia nonna apre. Sorride. Nino, dice. Sorrido. C’è puzza di cavolo. Apro la finestra. Questa casa è una scatola chiusa. Mi siedo sul divano. Mi chiede se voglio un caffè, faccio no con la testa. In tv, canale cinque, qualcuno si riconcilia prima di un tg assordante. Nonna indossa un grembiulino a fiori. Le chiedo cos’ha mangiato. Ragù, risponde. Annuisco. Tutto bene a casa? Anna? Mi chiede. Stanno tutti bene, dico. Ci abbracciamo, è stretta, sempre più ossa, meno muscoli e carne. Vai di là, dice, nonno guarda la tv. Va in cucina. È domenica, ci sono le partite. Mi alzo svolto a destra, nello stretto corridoio che porta alle camere da letto. Ci sono foto appese sul muro. Mio nonno, mio padre, mio zio si passano un vecchio pallone bianco e nero. Poi altre di loro a matrimoni, vestiti bene. Apro la porta della camera con la seconda tv. È tutto scuro. Le tapparelle abbassate, la tv spenta, le poltrone chiuse. Mi siedo su quella verde, con lo schienale reclinabile e il poggiapiedi alzabile. La spina è staccata. Una volta aperta del tutto ci sto steso, come in un letto. Mia nonna arriva, sento le sue pantofole strisciare per il corridoio, tra quelle foto insignificanti. Infila la testa e mi vede. Nonno è andato a giocare a carte, dice, che ore sono mi chiede? Prendo il telefono dalla tasca. Le otto meno dieci, dico. Annuisce. Sei andato a lavorare al bar? Faccio segno di no con la testa. E dove sei stato? A casa, dico. Ero a casa, ripeto. A casa di chi? Intanto mi squilla il cellulare. Vedo. È mio padre. Rispondo. Mi dice che sta arrivando. Chiudo. Mia nonna si è seduta su uno dei divani. Si guarda intorno. Mi richiede l’orario. Sono le otto meno cinque, dico. Dov’è finito mio marito, mi chiede? Non ho neanche il tempo di risponderle che va via, torna in cucina. Devo preparare la cena, dice, chi vi vuole sentire dopo. Accendo la tv. Gioca Inter Bologna. Buttare giù la saliva mi produce un leggero bruciore in gola. Nino, mi chiama nonna, Nino. Riattraverso il corridoio. In tv il telegiornale riempie il salotto di notizie. Il volume è basso. Guarda qua, mi dice. C’è del cavolo in una pentola. Buono, dico. È di pranzo, ma lo mangiamo anche stasera. L’odore è vomitevole. Vado in bagno. Mi guardo allo specchio. Mi guardo a lungo. Cerco tratti simili a quelli di nonno. Dove sono? Più volte, in questo bagno, davanti a questo specchio, siamo stati vicini e ho cercato quel tratto, quello stile che dovremmo condividere. Non riesco ancora a trovarlo. Suona il campanello. Rimbomba in ogni stanza della casa. Forza, sento urlare con una melodia mia nonna, si mangia. Va ad aprire. Esco dal bagno. Sento dei passi che dal corridoio vanno verso le camere da letto. Mia nonna torna in cucina. Chi è? Chiedo. Zia Mari, dice. Torno nel corridoio. La signora è in camera, mi saluta. Il suo italiano è migliorato dall’ultima volta che ci siamo visti. Le sorrido. Torno a vedere la partita. L’Inter vince per due a zero. Non c’è mordente. Mia nonna canticchia una vecchia canzone in cucina. Ha acceso il fuoco, la puzza si intensifica. Canticchia una versione stroppiata di O sole mio. Spengo la tv, riattraverso il corridoio. Dov’è andata la signora? Mi chiede nonna. La guardo. Chi? Chiedo. Mia cognata, dice. È di là, indico la sua stanza. Annuisce. Si siede di fianco a me. Lascia il fuoco acceso. Mi alzo piano, fingo di dirigermi verso il bagno, spengo il fornello. Nonna guarda la tv. Un servizio su un G7 o qualcosa del genere. Nino, ma tua moglie mangia con noi? Non rispondo. Rimango in silenzio. Torno a sedermi sul divano. Lei mi fissa. Oh, dice. Scuoto la testa. Suona il campanello. Rimango seduto, le orecchie tappate. Nonna si alza. Chi è adesso? Si avvia verso la porta. Guarda dallo spioncino. È nonno, dice. Apre. Torna in cucina. Leggo dei messaggi su whatsapp, alcuni amici vogliono andare a ballare stasera. Mio padre mi saluta alzando la testa. Entra in cucina. si accorge subito della puzza. Mia nonna ha riacceso il fuoco. La cena è pronta, dice. Noi non mangiamo qua, risponde mio padre. E dove? La voce è un sussurro. A casa, dice. Guarda mio padre. Nino, dice. Dimmi mamma. Papà dove sta? Io abbasso la testa, ha una reazione simile mio padre. Forse i tratti non sono tanto fisici, quanto negli atteggiamenti, penso. È al cimitero, sussurra nonna. Non è neanche una frase per fare conversazione. È una specie di promemoria che dovrebbe suonare più spesso, come le notifiche di un cellulare. Spegne il fuoco. Si viene a sedere sul divano. Troppi uomini, penso. Papà si siede di fronte. Guarda il tg. Neanche a lui interessa dell’Inter, non importa più a nessuno. Nonna è seduta, minuscola, occupa un corridoio strettissimo del divano. Pensa a qualcosa, chissà a cosa. Rimaniamo in silenzio per un po’. Com’è possibile? Ieri abbiamo mangiato insieme, dice. Sarebbe incredibile, penso. Nino, dice, com’è possibile? Mio padre vorrebbe piangere, lo so, non per la morte, non per la mancanza, non per la vecchiaia, per i fantasmi che circondano questa casa. Ci opprimono, arriveremo a soffocare. Sono passati sei mesi, com’è possibile? Risponde papà. Annuisce, sussurra qualcosa che non riesco a capire. Passano altri minuti. Continuano a parlare di una discoteca sul gruppo. Mi alzo e vado verso il corridoio. Lascio tutto immobile, nel silenzio. Riattraverso quelle foto. Il calcio è tutto quello che sarebbe dovuto rimanere. Accendo la luce della cameretta con la seconda tv. Nonno è seduto che guarda la partita. Non sulla sedia reclinabile, troppo lontana dallo schermo, ma su una piccola sedia di fronte la tv. Entro e mi siedo sul divano, di fianco a lui. Non comprendo perché preferisce la sedia al divano, è così da sempre. Mi dice che non si può giocare così a pallone, anche se la sua squadra vince due a zero, prima era diverso, prima c’era davvero un cuore in ogni giocatore. Annuisco. Di là sento delle voci. Mi alzo. C’è il padre di mio nonno, malato di Alzheimer, che parla con la zia Mari. Lei mi sorride quando mi vede, io rispondo nella stessa maniera. Nonno Mario parla di andare in guerra, dice che sono le cinque di mattina, che si deve mettere in cammino altrimenti non potrà salutare sua madre, dispersa da qualche parte. Zia Mari cerca di dirgli che sono almeno vent’anni che sua madre è morta. Io sono certo che, da qualche parte, sua madre lo sta davvero aspettando. Torno in camera. Nonno legge un giornale. Mi sorride. Mi racconta un fatto, di una volta che giù, nei sassi, incontrò un lupo mannaro, peloso e con la camicia da notte ancora addosso. Se la ride. Rido con lui. Mio padre mi chiama. Nonno mi dice di spegnere la luce. Spengo e tutto sparisce. Riemergo dalle foto nel corridoio. Nonna è ancora seduta sul divano. Non sembra più tesa, ma solo persa nel guardare la tv. Che fa l’Inter? mi chiede papà. Vince tre a zero. Sorride. Abbraccio nonna, è tranquilla. Le dico che ci vediamo domani, che vengo a prendere il caffè da loro. Dall’altra stanza sento l’eco della voce di nonno. Allora non prendiamo il caffè se non vieni tu, rimbomba. Annuisco, forse a vuoto. Io e papà usciamo chiudendo la porta. Vado nella mia macchina. Guardo il balcone, la casa dei fantasmi la chiamiamo con i miei fratelli. Guardo il telefono. Gli altri vanno in discoteca, a me non va proprio. Accendo e torno a casa.

Giuseppe Fiore

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