“Fletcher” di Milena Pesole

Mi chiamo Fletcher, questo è il nome che ho preso dopo aver ripudiato quello impostomi nel momento della mia nascita biologica.
Fletcher si scrive con una effe, una elle, una e, una ti, una ci, un’acca, ancora una e, una erre. Quindi si scrive in un modo e si pronuncia in un altro: Fleccer. E non è né un nome da femmina né un nome da maschio.
Da quando ho detto che non avevo più il nome di prima, prendermi per il culo è stato facile.
Ma io non ho pianto. Non ho ceduto alla rabbia. Ho corso, ma non per fuggire. C’è differenza fra correre e fuggire. E Fletcher non fugge.
Sentivo come una specie di energia calda e potente che spingeva dalla pianta dei piedi e saliva, saliva sempre più su fino alla punta della testa.
Questa specie di forza ha cominciato a spingere dopo che ho detto di aver scoperto che il mio vecchio nome non era il mio vero nome.
L’ho ripudiato rimettendo al mittente la responsabilità di avermelo affibbiato. Ho detto: Madre tieni, questo nome ritorna a te.
In quel momento è parso evidente come lei, in principio, non sapesse che il mio vecchio nome non era il mio vero nome. Me ne aveva affibbiato uno d’ordinanza per permettere alla mia esistenza di essere nominata. Un’ingenuità non da poco ma commessa in buona fede e pertanto non passibile di giudizio.
Questa energia non rabbia ma qualcos’altro, quindi, mi ha messo in moto e ho cominciato a correre.
Mentre correvo incontravo quelli che conoscevo e questi mi salutavano chiamandomi col mio vecchio nome d’ordinanza. Io mi fermavo e gli dicevo di chiamarmi Fletcher.
La prima che incontrai fu la mia vecchia maestra del catechismo. Si fece il segno della croce e disse che avrebbe pregato per me.
Io le risposi dicendole che grazie al fatto che ora conoscevo il mio vero nome ero in grado anche di conoscere il nome di Dio.
Lei allora scoppiò in lacrime e disse che per la mia blasfemia avrebbe pregato due volte più forte. Io la ringraziai chiamandola Esp.
Lei mi disse che ero ormai fuori dalla grazia divina e che quello non era il suo nome.
Io le risposi che non poteva dirsi davvero sicura di sapere quale fosse il suo nome perché non se l’era mica dato da sola.
Mi guardò come si potrebbe guardare il gatto con gli stivali se quest’ultimo esistesse davvero, ovvero con la certezza di vedere effettivamente un gatto e degli stivali ma senza la capacità di concepire i due elementi interconnessi al punto da rendere gli stivali calzanti per il gatto in questione.
Dopo incontrai i miei vecchi amici del liceo. Mi salutarono col mio vecchio nome e anche a loro dissi di chiamarmi Fletcher.
Il più grosso ribatté: come la signora del telefilm? Io risposi sì, ma senza omicidi. Il più piccolo e feroce mi accusò di avere manie di protagonismo.
Gli dissi che sì, volevo essere protagonista e che se voleva lui poteva avere la parte del poliziotto amico della signora dei telefilm.
Le gemelle, mie vecchie compagne di banco che nel frattempo erano diventate le loro fidanzate, non dissero niente perché capirono che non c’era assolutamente niente da dire ma si presentarono a me come fosse la prima volta, coi loro rispettivi nomi di nascita.
In quel momento, però, io seppi i loro veri nomi e per paura di svelarli, privandole della scoperta e della meraviglia che le avrebbero rese autenticamente nominabili, smisi di parlare.
Quei bellimbusti dei loro fidanzati allora, offesi dal mio silenzio, sentenziarono maledizioni e voltandomi le spalle si portarono dietro le gemelle.
Ma da quel momento in poi non riuscirono più a distinguerle perché queste cominciarono a non rispondere più quando venivano chiamate.
Correndo giunsi alla fine della città.
L’energia che non è rabbia ma qualche cosa deve pur essere mi fece capire che non poteva esserci fine alla mia città. Così presi a correre più veloce.
Attraversai tutto il paese per giungere al confine estremo, sulla roccia più alta, lo strapiombo più ardito.
Il mare sotto era gonfio e carico di onde e aveva un colore che non può essere nominato perché annullerebbe il senso di tutti gli altri colori.
L’energia che spingeva dalla pianta dei piedi ora cercava di sfondarmi la fontanella. Mi sentivo chiamare alle spalle. Mille voci scandivano il mio vero nome ritmicamente facendo il tifo per me: Flet-cher, Flet-cher!
Non ho risposto, non ho ringraziato. Non ho fatto nemmeno un inchino, anche perché non riuscivo a piegarmi per via del fatto che la fontanella sulla punta della mia testa tirava verso l’alto e quindi l’unica cosa che potevo fare era assecondare quella postura eretta e guardare a destra e a sinistra.
Il mare ha cominciato a ingrossarsi di brutto. Mai vista una cosa del genere.
Il rumore della risacca ora copre le voci che fanno il tifo per me e il colore che non può essere nominato diventa grigio, poi balugina di bianco e poi tutto si spegne e non vedo né sento più niente.
Nel buio e nel silenzio mi sento tirare per la testa fino a staccarmi da terra.
Mai provata una leggerezza simile.
Da lontano arriva un rombo, come una specie di tuono o di esplosione e un vento forte mi travolge e all’improvviso il mondo o quello che ne è rimasto si capovolge e anziché continuare a sollevarmi su nel cielo, che non è più cielo e che non ha colore, cado.
Ma cado di brutto, senza freno, senza eleganza.
Nel vento che mi sbatacchia c’è come una specie di pioggia ma appiccicaticcia, mi fa pure un po’ schifo.
Me la sento tutta sulla faccia e sulle braccia e sulle mani e nei capelli ed è gelatinosa e mi si ficca, a momenti, anche su per il naso.
Vorrei urlare ma capisco che non posso perché sono in questo pozzo di melma che adesso si sta pure restringendo. E mi sento le braccia attaccate al corpo e le pareti di questo pozzo attaccate alle braccia.
Allora penso che io un sogno così assurdo non l’ho mai fatto e che devo avere fiducia perché tanto prima o poi mi sveglierò. Così aspetto. E forse c’ho preso. Mi fermo, smetto di precipitare.
Non posso muovere né braccia né gambe, ma non sto precipitando.
C’è questa melma schifosa che a dire il vero non ha neanche un buon odore, ma non sto precipitando.
Sono nella morsa di questa specie di corridoio strettissimo, a testa in giù, ma non sto precipitando.
Bene.
Anzi no.
Il corridoio mi si muove addosso. Si restringe e si allarga leggermente, ritmicamente e a ogni singulto mi muovo.
E singulto dopo singulto, ricomincio a cadere strisciando a testa in giù, con la faccia spiaccicata nella melma. Non è dignitoso, mi dico.
L’universo deve aver percepito la mia stizza e come spesso accade ha deciso di mandarmi la mazzata finale.
Mentre scivolo tra le pareti del mio incubo peggiore resto senza più nemmeno un brandello di un qualsiasi tessuto. Questa melma che fagocita di tutto mi aggredisce pure i peli e i capelli.
Me li sento che si staccano e mi cascano sulla faccia e poi mi passano su tutto il corpo, li riconosco, sono i miei, lo so perché adesso sento un frescolino sulla punta della testa pelata, e questo frescolino si espande e arriva pure sulle orecchie e adesso che ci penso arriva pure sugli occhi che non posso aprire perché sono appiccicati dalle caccole untuose della bava che mi avvolge e sento, adesso, tutto insieme fresco e caldo e pure qualche rumore e sono voci, di persone, e c’è una luce credo, e qualcuno che conta e a ogni tre il corridoio mi sputa fuori di qualche centimetro, ed è una guerra perché io mi oppongo, ma poi qualcosa mi afferra per le spalle e all’improvviso soffoco ma adesso la rabbia ha preso il sopravvento e cerco di non continuare a soffocare solo che l’universo si accanisce ancora su di me con due ceffoni sul culo e poi, ancora una volta, il mondo si rigira e finalmente ora qualcosa di simile a ossigeno misto a disinfettante mi entra su per il naso e qualcosa di simile al verso di un mostro alieno mi esce dalla bocca e poi vedo, sì ora vedo che ho ancora quella melma addosso e le mie mani e i miei piedi sono piccolissimi e questa luce non è di quel bellissimo colore innominabile di prima, fa schifo, e mi sbatacchiano a destra e a manca e c’è della gente che fa i complimenti ma non a me e poi mi ritrovo addosso a qualcosa di morbido e guardo in alto e la vedo e assomiglia a quella donna che una volta, tanto tempo fa, mi affibbiò un nome d’ordinanza e adesso mi fissa, e io la fisso e non riesco neanche più a ricordare chi è e nel frattempo qualcuno alle mie spalle le chiede: avete scelto il nome?

Milena Pesole

Advertisement

Leave a Reply

Fill in your details below or click an icon to log in:

WordPress.com Logo

You are commenting using your WordPress.com account. Log Out /  Change )

Facebook photo

You are commenting using your Facebook account. Log Out /  Change )

Connecting to %s