«Andato» dice sovrappensiero. «Ha preso il volo» alza la voce mia madre dalla finestra e la spinge a mezzo campo, le mani bagnate sul poggiolo. La nonna si aggiusta la veste dove bisticciano uccelli tropicali su fondo azzurro. «Benedetto figliolo» sdrucciola di dentiera e intanto le mani macchiate rovistano tra le foglie croccanti delle pannocchie. «Peggio della Spagnola.»
«L’erba cattiva non muore mai» dice di rinforzo sua figlia.
«Come la gramigna» e strappa un ciuffo d’erba. «Infesta, tale e quale alle febbri e alle lumache» e lo fa sparire in un sacco di plastica nera.
Fa due passi trascinati, le mani terrose a tenere la tasca larga sul davanti della veste, da dove spunta la forbice. È pesante, di ferro, i manici neri. «Mentuccia» non fa in tempo a dire che già si porta le dita al naso. Recide, un taglio diagonale, un paio di rametti finiscono nella tasca. «Capace pure che prende.»
Agitano i gomiti, le vedo spuntare tra le fronde, dalla cima dell’acacia riesco anche a sentirle, parole rovistate, portate da un vento elettrico di rovesci.
Assiepate di sterpi, le radici dell’albero, comode a salire, mi fanno pensare che, se dovessi perdere la presa, finirei per rompermi l’osso del collo. Dall’alto vedo le galline in un tramonto di pollaio, rientrate nelle cove zitte zitte e, se proseguo, la vista liberata giù per il campo, oltre il deposito della legna e lo stalletto, viene a noia il grugare di stoppie bruciate e piccioni.
«Se ne andrà, vedrai» dice mia madre.
«Non sono sicura» dice mia nonna. Si spinge su un costone di terra di riporto, un paio di gradoni a salire fermati da un rompitratta di legni intrecciati, i lavori che fa il cugino Adelmo per cinque litri d’olio. «Il mese prossimo incartiamo i cardi» dice distratta da altro.
«Non è presto anche solo a pensarci?» risponde mia madre poco convinta e prende a contare i mesi sulle dita. «Hai ragione tu, aspettiamo la luna nuova» dice alla fine.
Dal momento in cui ho rimesso piede in casa, si ripete ogni giorno la stessa rappresentazione, una specie di numero da vaudeville concertato insieme, una recita, una messinscena, con tanto di costumi. Personaggi, mia madre e mia nonna, virate al nero, il copione tirato a memoria, e me, il protagonista, scomposto nei passi, incerto sulle battute, uno che non conosce la parte fino in fondo. Mi convinco che ci deve essere una logica, un piano per mandarmi fuori di testa.
Mi prendono di sorpresa, si tratta di veri e propri agguati, quando meno me lo aspetto, alle spalle. Mi costringono negli angoli della casa e mi malmenano con cucchiai di legno o qualsiasi cosa gli capiti a tiro. Mi va bene se mi cacciano a spintoni, le mani di ossicini e la saggina della scopa. Se non scappo, sono affari miei. Sospetto che siano d’accordo. A volte, di notte, quando le scale che portano al primo piano scricchiolano di sonno, mi viene il dubbio che non siano loro.
Per questo ogni giorno mi ritrovo costretto a salire sull’albero.
Era dicembre. Ho chiuso la valigia con dentro le cose a me più care. Fuori dalla finestra, una pioggia odorosa di promesse. Una volta arrivato qui, a casa mia, non sono più riuscito ad andarmene. Dopo un mese, a fatica, sono rientrato in possesso della mia stanza. Mi trattano come un ospite, il più delle volte mi ignorano, fingono di non sapere chi sono. Nelle rare occasioni in cui mi riconoscono, sono ostili, nonna si fa il segno della croce, mamma stacca gesùcristo dal muro.
«Chi è questo?» dice mia nonna.
«Mai visto» dice mia madre, e giù legnate.
A pensarci, non ricordo un evento scatenante. Dal mio ritorno, e per i giorni successivi, il tempo necessario che mi è servito per capire, hanno preso a recitare. Alla fine, per sopravvivere, mi sono rassegnato, ho chiuso le porte a ogni possibile interpretazione, è andata così, mi dico, mentre le guardo dall’alto.
«L’anno prossimo niente ravanelli» dice mia nonna.
«Perché?»
«Non è terreno. Guarda» e mostra il frutto a mia madre che strizza gli occhi dalla finestra.
«Cosa c’è che non va?»
Non è tanto l’integrità della persona, quanto il delirio che le anima, come fossero venute a sapere in mia assenza qualcosa che ignoro, di cui nessuno mi ha informato.
«È bruciato.»
Pensavo parlasse di me. Bruciato. Dovrei andare via. Ma dove? Ho perso l’anno, non sono più rientrato a scuola, nessuno ha più chiesto di me. È come se fossi morto, mi dico. Mi tocco il corpo per capire se sono tutto intero.
La spalla sinistra presenta una cavità, lo stomaco un enorme buco, i capelli sono incolti, cresciuti a dismisura come le unghie.
Mia nonna rientra in casa giusto il tempo di lavarsi le mani. Sorrido sempre quando indossa la veletta, la stessa dei tempi del nonno, la trama sottile, i grumi di velluto nero. Si incamminano lungo il sentiero. Mia madre stringe tra le dita un mazzo di fiori, il lutto di mia nonna la segue sgranando il rosario. Così faccio io, aspetto che spariscano dietro la curva, scendo con attenzione e gli vado dietro. Arriviamo al cimitero che è pomeriggio inoltrato. Il paese si distende sotto le mura fortificate della città della morte. Passato il cancello, l’odore di cenere, fiori recisi, cera, acqua ferma e tempo mi stringe la gola. Fa freddo, i miei vestiti sono logori, stracciati. Posizionata la scala all’estremità sinistra della parete di fornetti, mia madre sale per prima, prende il vaso di peltro con i fiori secchi e, flessuosa come un giunco, lo passa a mia nonna. A seguire il campionario di gesti calibrati di mia nonna: butta via l’acqua, sciacqua alla fontanella e lo riempie di nuovo, prima di restituirlo a mia madre, che ora con un panno lucida la scritta sul marmo.
Io, appartato dietro un angolo funebre, sono troppo lontano per leggere.
Quando se ne vanno, oramai è buio, si tengono sottobraccio, come a cercare calore. Salgo la scala, un piolo alla volta. Ho le mani ghiacciate, ho paura di cadere. La fotografia è piccola, scura, allora mi sporgo in avanti e leggo il nome del fortunato che merita l’attenzione di quelle due arpie al posto mio.
Cristina Pasqua