Inutile mormorare logore frasi, Liliana che piange era il termine,
il bordo dal quale avrebbe avuto inizio un nuovo modo di vivere.
Julio Cortázar, Ottaedro, Le lacrime di Liliana, Einaudi, Milano 1974
Sono le otto di sera e Carlo tira giù la saracinesca cercando di non far cadere il prosciutto che tiene serrato sotto il braccio sinistro. Il rumore metallico invade la piazza antistante, ingoiando lo stridere di forchette e coltelli, deglutendo il gorgoglìo afono della fontanella e l’agonia dei copertoni sull’asfalto incandescente. Carlo è in ritardo per la consegna. Deve portarlo in una casa fuori città, in collina. Infila il prosciutto nel portapacchi e sale sul motorino. Carlo ha sedici anni e lavora nella bottega di suo padre già da due. La consegna è urgente, e così con il prosciutto che si agita nella cesta di vimini Carlo si lascia alle spalle la città.
Il transit delle pompe funebri è parcheggiato proprio davanti alla porta di casa, tre gradini di marmo, il nero lucente della carrozzeria, la scritta in oro F.lli Trabasso.
Il salone principale è stato allestito per la veglia funebre. La signora Liliana, la di lui moglie, non vuole che nessuno entri nella stanza da letto, ha lasciato tutto così, ancora l’impronta del corpo del povero Antonio sulle lenzuola e l’odore dolciastro di morte annidato tra le pieghe delle tende.
Del soffritto. Aglio finemente tritato, unito alle cipolle di Tropea, scelte con cura tra i banchi del mercato. Mentre piange, la Gina, la mezzaluna impietosa si dimena tra le lacrime, le mani strusciate sul grembiale prima di aggredire le coste dei sedani e poi le carote, sfilare, tirare via filamenti e buccia, verde e arancione, e di nuovo le mani sul grembiale, la sinistra tra i capelli, una ciocca sfuggita al rigore delle forcine, e l’altra sul ventre. Il pianto ritmato della signora Liliana non si placa, nella stanza da bagno si disperde sulla ceramica, l’acqua a scorrere nella vasca per coprire i singhiozzi, piange come una ragazzina, aggrappata al lavandino, accosciata sulle piastrelle gelide, le calze smagliate da un appiglio fortuito, confortata solo dai rumori della cucina che la riportano, anche se con un nodo alla gola, al pranzo di nozze.
Il billo. La notte prima del matrimonio era stato tutto un tramestio di porcellane e argenti, soffritti a sfrigolare e di pomidoro pelati nell’acqua bollente. Liliana ricorda la cucina enfia di vapori al punto che non si vedeva oltre il proprio naso, e la Gina, trent’anni più giovane, con lo stesso rigore di forcine di ora, in piedi, le spalle larghe e le gambe forti a dominare la mezzaluna, il naso arrossato e così gli occhi, annegati di grigio, quell’espressione solo sua, le labbra strette, sottili e i denti grandi, bianchi, regolari, dispersi in un baluginio di riflessi di pentole di alluminio. La sposa, il tacchino l’aveva scelto il giorno prima, lo aveva indicato con l’indice nel recinto; quello, aveva aggiunto. La Gina si era affannata a rincorrerlo per l’aia, il billo, così li chiamano in Umbria, i capelli scomposti e gli occhi annodati di rabbia. Ricorda, Liliana, il sorriso di soddisfazione della Gina nel momento in cui era riuscita a stringere il collo al billo, tra le dita ossute, il collo, e ricorda il rumore, Liliana, del collo tirato, TLAC, lo stiletto che trapassa la gola e il rosso del sangue sulla terra battuta.
Del rigore degli alluci. L’addetto delle pompe funebri, aiutato da un apprendista, ha trasportato il cadavere del povero Antonio nel salone principale. È stato lavato nella stessa vasca dove ora Liliana riversa le sue lacrime, la spugna che s’inerpicava sul rigore, e non di forcine, del corpo rigido; la spugna che s’insinuava sotto le ascelle del corpo freddo, mentre in cucina il calore si sprigionava dai fornelli e la Gina, arrossata, le stesse mani ossute, a spennare il tacchino, accosciata sulla sedia di paglia. La spugna e la schiuma dei giorni di Antonio, il sapone avorio come l’incarnato, gli oli profumati per coprire l’odore, così dolce e persuasivo, che si fonde con quello del soffritto, la cipolla ammalvita prima, dorata poi, in lotta contro il rigore degli alluci, i baffetti curati del signor Antonio, le unghie nettate, gli occhi vitrei, mobili un tempo, come quelli di una faina. Ma è vero che i capelli e le unghie continuano a crescere anche dopo morto?, curioso l’apprendista domanda, e immagina il povero Antonio con i baffi incolti, i capelli scarmigliati, adagiato nella bara, in quello spazio esiguo di ciliegio che non permette agilità di pennello, sapone e rasoio. L’apprendista non riesce a staccare gli occhi dai piedi, dagli alluci tirati del defunto. Come faremo a infilargli le scarpe, si domanda.
La gruccia. Cipolla rossa, sedani, carote, una becca d’aglio con la camicia, intera e schiacciata, si uniscono al guanciale cardellato. La Gina ha bollito i pomidoro, che ora distesi sul lavello, le pelli sollevate come dopo una brutta ustione, attendono il loro turno. La farina sulla spianatora forma un vulcano e, all’interno il rosso dei tuorli e i baluginii di chiara; rimesta, la Gina, le braccia forti e così le gambe, un pizzico di sale, e uno tirato alle spalle contro la malasorte, un goccio d’olio; impasta, la Gina, le lacrime agli occhi, perché li sente i singhiozzi di Liliana, e ricorda le sfoglie stese sui canovacci la notte prima delle nozze, sul letto matrimoniale che porta bene, le sfoglie tese, l’abito bianco appeso a una gruccia sul limitare di un’anta sull’armadio, e così il velo, e nessuno, tranne e lei e Liliana, che ci potesse mettere piede, in quella stanza.
In punta di forchetta. L’apprendista allaccia i bottoni della camicia, uno dopo l’altro, che sembrano non finire più; gemelli ai polsi e A.R., i monogrammi ricamati da Liliana, ago e filo, in basso a sinistra, perché così li voleva lui, il povero Antonio.
Il fattore si chiude la porta alle spalle. Ha fatto un giro per la vigna. Sta per venire a piovere, dice tra i denti, ma la Gina non lo ascolta, il tacchino a pezzi, di nuovo TLAC di ossa rotte, immerso nel vino, con bacche di ginepro, rosmarino, aglio schiacciato, sempre in camicia che sembra il povero Antonio, e due foglie di alloro. Stende la pasta con il mattarello, ma quel ritmare di legno su tavola non copre il pianto di Liliana, né lo scricchiolare delle ossa del povero Antonio, una lieve imbottitura infilata nelle guance per rendere il viso meno vizzo, le labbra tirate, e il rossetto, solo un velo, dice l’impresario, per cancellare quell’aria di trapasso basta un po’ di colore sulle gote, non riporta in vita, ma rende meno osceno il dolore, aggiunge in punta di forchetta.
Il pianto di Liliana è come la farina a pioggia sulle sfoglie tirate dalla Gina e abbandonate sul suo, di letto, questa volta, perché di là non si può entrare perché Liliana ha posto il veto. Un rumore invadente, il tirare di sfoglia, che si unisce allo stridere delle stringhe delle Duilio del povero Antonio, un laccio rotto in mano all’apprendista; se lo era pure immaginato, visto il rigore degli alluci, il laccio consunto si spezza, e si spezza il cuore di Liliana, che esce dal bagno con gli occhi stanchi, il viso opaco e i capelli grigi e argentati raccolti. Il nero del lutto le dona signora, pensa scivolando davanti allo specchio, e pensa ai parenti, ai conoscenti, agli avventori che domani riempiranno la sala di chiacchiere, in mano una piatto cupo di consommé e poi il tacchino ripieno, la mollica di pane e l’uovo, i piatti con la trafilatura in oro e gli argenti delle forchette, il riflesso dei cristalli mai usati per paura di romperli.
Lo sguardo di Liliana. In cucina la Gina taglia a mano le sfoglie piegate, la lama sicura come le gambe, una spolverata di farina e canovacci umidi a coprire, perché per domani non si devono seccare.
Liliana si avvicina all’impresario delle pompe funebri, lo guarda dritto negli occhi, non ha il coraggio di incontrare la fissità di Antonio. Avete finito, chiede. Sì, ora, le risponde l’impresario, mentre l’apprendista si fa da parte a mostrare quello che Liliana non vorrebbe proprio vedere.
Nella pentola di alluminio la Gina ha trasferito i pomidoro pelati e tagliati a pezzi, il vino è sfumato subito, solo una spruzzata a fiamma alta. La Gina riempie il tacchino di mollica di pane, guanciale cardellato e odori; aggiunge pure un chiodo di garofano e qualche pezzo di mela renetta per renderlo più dolce. Davanti al camino si piega sulle gambe forti e dispone le braci e, attizzato il fuoco alle spalle, infilza il billo nello spiedo e lo allinea alla generosità della fiamma.
Gli occhi di Carlo. Liliana discosta lo sguardo, sta per venire a piovere, dice il fattore che, con passo pesante di stivale, si dirige verso la porta. Liliana sente le prime gocce sul tetto, ritmate come il pianto che le si strozza in gola. Abbiamo finito, rimarca l’impresario, e l’apprendista, gli occhi grandi e spauriti in un angolo, ascolta in silenzio. Guardi signora, indica e dice l’impresario, ma Liliana non vuole guardare, si avvicina alla finestra e la spalanca al vento. Sta già piovendo, dice piano.
Sotto il davanzale, Carlo, gli occhi persi nel buio, il prosciutto serrato sotto il braccio sinistro. Liliana non lo vede, annusa l’aria per scacciare l’odore dei fiori recisi. Quando abbassa lo sguardo scorge Carlo, magromagro, il naso adunco, il prosciutto serrato sotto il braccio sinistro, e lo invita a entrare.