E lì, proprio lì, all’incrocio tra Rue Tour Eiffel e Rue Coco Chanel, sorgeva il negozio senza nome. Perché per un negozio l’incrocio è il luogo adatto in cui sorgere, si fa bello sulle due strade e s’illumina di Est e di Nord quando l’urbanistica lo consente. Questo negozio senza nome non era atletico come altri negozi senza nome che paiono scalpitare per prendersi un pezzetto del marciapiede antistante. Le vetrine non avevano quella plasticità capace di inghiottire il passante né quella attitudine alla soddisfazione del narcisismo altrui che permette di darsi una specchiata. Non è corretto dire che questo negozio non avesse un nome, non aveva un nome proprio ma sicuramente aveva un nome comune. Non un nome comune di negozio e nemmeno un nome tanto comune per un negozio, più che altro un nome proprio di azienda: Kodak. No, effettivamente il negozio non aveva un nome, Kodak era solo la composizione di lettere al neon rosso che, senza troppo impegno, campeggiava su uno sfondo giallo appena sopra l’ingresso del negozio. No, nessuno diceva “vado al Kodak”, ma qualcuno, a fronte di domanda specifica, qualche volta rispondeva “lì, dove c’è quell’insegna della Kodak”.
Che cosa vendesse il negozio non è un tema di facile svolgimento. Sfidando postulati filosofici sicuramente sconosciuti a un negozio, la nostra unità regolarmente censita al catasto sita all’incrocio tra Rue Tour Eiffel e Rue Coco Chanel trasformava un tema solitamente oggettivo in qualcosa di molto soggettivo. Se lo aveste chiesto alla signora Dupont vi avrebbe risposto che stampava i rullini fotografici delle sue vacanze e probabilmente, ma non ne sarebbe stata sicura, anche le fotografie del nipotino che sua nuora Legrand in Dupont le regalava a ogni compleanno a mo’ di biglietto d’auguri. Se lo aveste invece chiesto alla signora Faure vi avrebbe risposto che vendeva occhiali. “Certo” vi avrebbe detto, “non era uno di quei posti dove potevi avere una vasta scelta di montature e tipi di lente, sicuramente non c’erano cassetti sottili sottili e infinitamente larghi che una volta aperti rivelavano occhiali divisi per forma, colore, materiale” ma lei i suoi occhiali li aveva acquistati lì. Due volte in trent’anni. Il signor Perrin vi avrebbe invece confermato che il negozio in questione offriva il fondamentale servizio di scatto e stampa di fototessere. Dopodiché ci avrebbe tenuto a sottolineare che le macchinette che si trovavano adesso nelle stazioni e che consentivano di stampare in due minuti quattro fototessere non avevano quella qualità fotografica in grado di restituire con onestà il lignaggio del soggetto. Per questo il servizio di scatto e stampa delle fototessere fornito dal negozio era così prezioso: risultava essere un argine allo smarrimento della linea di discendenza; quelle fotografie, in fondo, erano destinate a documenti che, ogni qual volta fossero stati esibiti in un ufficio pubblico o di fronte ad un pubblico ufficiale, sarebbero così stati in grado di offrire all’interlocutore il giusto lignaggio della persona che si trovava di fronte.
Se l’aveste chiesto a noi, il negozio all’incrocio tra Rue Tour Eiffel e Rue Coco Chanel vendeva veramente poco.
Era come se il negozio affrontasse la città con un’indifferenza che non aveva nulla della spocchia, una resistenza talmente spoglia di ideologia da diventare semplice esistenza. Possiamo forse affermare che cosa vendesse il negozio non è poi così importante dato che vendere non sembrava la preoccupazione di nessuno tra quelle quattro mura.
L’attività lì dentro, qualsiasi sfumatura avesse, era di famiglia. Non sappiamo come lo sia diventata né da quanto si tramandasse. Gli unici elementi a nostra disposizione erano le persone che abbiamo sempre visto dietro quel bancone, il signor Martin e la figlia, la signorina Martin, e l’altro grande protagonista, il carattere forte del negozio: l’arredamento.
Il signor Martin era un uomo dolce, la faccia quadrata e i baffi da dittatore risoluto non rendevano giustizia al suo animo da sempre antico. Fermo, nessuno ha memoria di averlo mai visto spostarsi dalla sua postazione seduta dietro il bancone. Per quanto ne sappiamo poteva essere un mezzo busto e aver perso le gambe in qualche rincorsa giovanile di un amore perduto; sarebbe stato proprio da lui. Sicuramente la parte di corpo a noi visibile era sempre di un’eleganza compassata, la camicia morbida ma attillata che intrappolava tra i bottoni e il colletto una cravatta che avremmo voluto papillon perché la sua immagine reale rispondesse al meglio a quella che noi avevamo di lui. Sopra la camicia una giacca di tessuto rigido, spesso, che solo a pensarci ti viene caldo dappertutto tranne che al cuore. Una divisa con piccole variazioni di colore e pochissime concessioni ai cambiamenti stagionali. Termo-autonoma.
L’assenza di una signora Martin era talmente evidente che nessuno ebbe mai il coraggio di chiedere se ci fosse ancora o dove fosse questa signora Martin. Prova certa e inconfutabile dell’esistenza di una signora Martin, ancorché in un tempo e in uno spazio non definiti, era la signorina Martin.
La signorina Martin, al contrario del padre, aveva una buona mobilità, e si spostava senza fatica da un lato all’altro del negozio, ad una velocità giusta. I suoi movimenti sembravano suggerire che nel negozio vigessero delle leggi fisiche proprie che non consentivano la fretta ed escludevano la rapidità. Questo non vuol dire che la signorina Martin fosse lenta, anzi, nell’ambito di queste leggi fisiche ad hoc, sembrava sempre voler tendere verso il limite massimo adottando un passo corretto, adatto al contesto.
L’abbigliamento della signorina Martin presentava una maggiore varietà rispetto a quello del padre, ciononostante i loro guardaroba avevano un animo comune, come se fossero abituati a una vita insieme. Gonne sotto il ginocchio, rigide, a volte più ampie a volte più strette, camicie leggere, colori tenui, fiori appena accennati, giacchette che non davano nell’occhio, quasi come avessero avuto paura di risultare fuori luogo in quell’ambiente così delicato di leggi fisiche personalizzate. Fede che traspirava più dei vestiti: era facile immaginarsela tra i banchi di una chiesa, con il viso rivolto verso l’altare incorniciato dai capelli lisci che le si appoggiavano con timore sulle spalle. Il suo sorriso misurato ma potente e libero e il suo tono sempre cordiale ma con un’immancabile punta di felicità autentica contraddicevano l’immagine di frustrazione che associavamo al suo vestiario e alla sua devozione. La signorina Martin aveva per noi un fondo di mistero, ci incuriosiva quel suo proporci un cliché da patriarcato cattolico rotto da crepe libertarie, senza alcun accenno di lotta o rivoluzione ma anzi, con un’armonia spiazzante. Ancora di più ci incuriosiva della signorina Martin il suo esistere sotto falso nome: esatto, non c’era nessuna signorina Martin. Quella che noi conoscevamo come signorina Martin era stata, una volta, signorina Martin. Ma non lo era più. La incrociavamo di tanto in tanto lasciare il negozio in bicicletta a fine giornata; la pedalata era decisa, nessun affanno, nessuna fretta, quasi che le leggi fisiche del negozio faticassero a lasciare il posto a quelle del mondo esterno. Ma neanche un’incertezza, nessuna concessione alla stanchezza, nessuno sguardo in direzione del marciapiede alla ricerca di una scusa, di uno scambio di battute, di un incontro. Il ritmo costante della pedalata non lasciava dubbi: la casa che l’aspettava non era vuota. L’anello al dito era poi la conferma che la Non più signorina Martin era sposata. Solo due ragioni si sono abbracciate nella nostra mente sul perché di questa bugia nominale: la signorina Martin, quando ancora era onestamente la signorina Martin, aveva sposato un tal signor Martin; il loro amore aveva trasceso l’ironia del destino che aveva scelto per loro lo stesso cognome e, dopo approfondita verifica a escludere inconsapevoli gradi di parentela, la signorina Martin era diventata la signora Martin. Ora, va da sé che il cambio di appellativo avrebbe creato non poca confusione e potenziali situazioni di imbarazzo nel negozio a quel punto gestito da signor e signora Martin, padre e figlia con appellativi da coniugi. Vista l’alta diffusione del cognome Martin nella zona – solo nella vicina Rue de Bonbon se ne contavano almeno dieci – questa prima ipotesi non era così inverosimile ma la seconda presentava ai nostri occhi una maggior coerenza con lo spirito del negozio: per tutti era sempre stata la signorina Martin e così doveva continuare a essere.
Nulla fluttuava nel negozio all’incrocio tra Rue Tour Eiffel e Rue Coco Chanel, tutto sembrava avere un suo posto da sempre e la continuità spazio-temporale legiferava con una coerenza impassibile. Bancone, scaffali e mensole erano rigorosamente in laminato plastico effetto legno, dappertutto vetrinette: sugli scaffali, sul piano e sul fronte del bancone. Nelle vetrinette, poco. Qualche fotografia sbiadita di panorami e bambini felici inserita in cornici argentate di varie forme, qualche paio di occhiali, un cannocchiale, uno solo. Un’esiguità ordinata, dignitosa, né mancanza né minimalismo, nessuna ricerca ma semplice stasi. Alle pareti, dei poster sotto vetro prestavano all’esemplificazione del formato fotografico le loro immagini da civiltà in buona salute tra prati, monti e sorrisi. L’aria ferma, immobile, lì da sempre ma non stantia. Sul bancone un registratore di cassa faceva la parte dell’intruso: visibilmente troppo giovane e sofisticato si rendeva antipatico facendo pesare con la sua sola presenza l’impegno richiesto alla Non più signorina Martin per imparare a domarlo. Eppure anche quel rapporto tra registratore di cassa e Non più signorina Martin si srotolava ritmato con estrema naturalezza dalle leggi fisiche del negozio.
La costellazione eterna di formica, vetro, oggetti esposti e fotografie dava al negozio all’incrocio tra Rue Eiffel e Rue Coco Chanel una personalità inafferrabile. Non era vecchio, a qualche passo dalla soglia della vecchiaia ma senza mostrarne preoccupazione e senza indurla in noi. Non era moderno, decisamente non era moderno, tutto tra quelle quattro mura sembrava una contestazione del moderno, una resistenza passiva, talmente pacifica da risultare inconsapevole. Romantico per pochi.
Ebbene Gentile Non più signorina Martin, ci rivolgiamo direttamente a lei in questo momento così intenso. Rue de Chiffon ci scorre davanti fino ad accarezzare Place Deneuve, questa sembra spremersi in un unico punto al suo centro appoggiato con tutta la sua pietra sul nostro petto. Dal centro esatto del ponte sulla Baveuse il nostro sguardo corre su almeno tre isolati e lì, proprio lì, all’incrocio tra Rue Tour Eiffel e Rue Coco Chanel, vediamo il negozio in solitario abbandono. Non sembra prendersela, accetta anche questo, con una dignità distratta ma è una bugia. Dentro quel solitario abbandono ci sta una tristezza che trabocca, sfonda silenziosamente le vetrine e si riversa in strada. Quel fiume lento di pianto umido imperla le pareti dei palazzi di Rue de Chiffon e stagna in Place Deneuve che preme sul nostro petto.
Ciò che non ha brillato e non è stato realizzato piange per la vita in quel negozio, piange l’esistenza che non è stata resistenza né audacia, piange dei tempi che sono passati fuori da quella porta senza mai entrare, piange per ogni parola posata che non è stata impresa straordinaria, piange per lo sguardo mite che non ha dato fuoco a nessuno. Piange sapendo che giorno dopo giorno è rotolato su frequenze che l’uomo non può percepire, forse qualche cane, ma nemmeno tutti, piange con la consapevolezza di non essere sentito piangere.
Gentile Non più signorina Martin noi non piangiamo, e siccome non piangiamo vediamo perfettamente la Baveuse che scorre lenta, ne percepiamo la forza stanca che la trascina, anche lei mancante di una volontà propria che la faccia dirompere. Invidiamo, Non più signorina Martin, quella sua pedalata nel tornare a casa, noi non abbiamo mai avuto quel tipo di intenzione nelle cosce e ormai chiudiamo qui, come il suo negozio. E saltiamo.
[…] Il negozio di Davide Pansera su Blogorilla Sapiens […]
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