Racconto: “Chissà se va” di Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco

– In questo sacco c’è la gamba, cosa ne volete fare? Qualcuno è venuto a cercare la propria, per poterla sotterrare in una piccola bara. Se non la volete la smaltiamo nell’inceneritore.
Suor Olimpia con la sua voce nasale e le sembianze di un roditore aspetta la risposta, mentre l’ascensore vi porta al secondo piano.
Salvo immagina l’arto, nero come un tizzone bruciato, deteriorato e puzzolente dentro il sacco e suo padre che non entra in chiesa da decenni, desideroso di celebrare un funerale con tutti i crismi per la sua parte morta: bara, fiori, messa, con corteo e sepoltura conclusiva.
Una visione tra il grottesco e il raccapricciante.
– Non credo cercherà la gamba. Come si ristabilisce, torna in Sicilia e sono sicuro che non avrà voglia né modo di venire di nuovo qui. Vada per l’inceneritore.
Pensa, con una certa dose di disgusto, all’odore di carne alla brace di quell’arto che, per fortuna, nessuno sentirà.
Resta pietrificato quando nel letto metallico ospedaliero vede quel corpo a cui manca un pezzo. Guarda il moncone stondato e incerottato eseguire piccoli movimenti rapidi, incontrollati.
È molliccio come pasta per pane.
Resta inebetito e fermo.

Di notte fa dei sogni raccapriccianti: arti necrotici che lo inseguono, alcuni si spaccano, producono un rumore come quello di un ramo secco spezzato. Da quei pezzi fuoriesce un liquido cremoso e purulento disseminato di larve che cadendo a terra e si muovono come lucertole in fuga.
Nei viaggi onirici meno cruenti, suo padre Tino cammina con naturale disinvoltura su una gamba sola come se non avesse bisogno di due piedi. È contento, si sente bene.

Nel mondo reale, non è così: lo vede soffrire terribilmente. Il vecchio genitore gli racconta:
La notte non dormo, il dolore non mi dà pace.
L’arto fantasma, come tutti gli spettri che si rispettino, al calar delle tenebre lo tortura e all’alba svanisce permettendogli di assopirsi per qualche ora, fino a quando non finisce sotto le grinfie della moglie, trasformata dalla vecchiaia e dalla depressione in una megera, che lo sveglia senza alcun indugio.
Tino non riesce ad accettare la protesi, ha paura a stare in piedi con quel pezzo finto. È troppo vecchio e scontento per reagire positivamente. Odia dipendere dagli altri. Non sopporta vivere lontano dai rumori della città e dai suoi ozi di pensionato.
Non si vergogna a raccontare che la sera ha paura. È certo, appena farà il tentativo di abbandonarsi al sonno ristoratore, l’arto fantasma ricomparirà per torturarlo, in un punto preciso, vicino al polpaccio. Un dolore forte, profondo e acuto in una parte che non esiste più sul corpo, ma che è ancora viva nel suo cervello.
Salvo si sente impotente. Qualche notte rimane a vegliarlo, lo guarda: il respiro affannato per l’insonnia e le troppe sigarette fumate negli anni, mentre la moglie accanto, sonoramente russa. Il padre parla con la sua gamba che non c’è più. È sveglio, si sfoga:
– La vita è una presa in giro. Quante cose volevo fare e invece ci sono rimasto fottuto. Ora sono qui che non posso fare niente. È finita. Sono stato punito.
Il figlio, a sentire quelle parole amare, percepisce il fallimento anche della propria esistenza fatta di turni spossanti e bollette da pagare.
E la tele accesa lancia immagini senza sonoro di Canzonissima ’71 con una giovane Raffaella Carrà che balla e canta Chissà se va. Si ricorda che a suo padre la Raffa nazionale piaceva tanto e ora non si rende nemmeno conto che, come nel passato, è lì sullo schermo: si dimena e muove la testa come solo lei sa fare.

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