Era la terza mattina di fila che si svegliava con le lacrime agli occhi e i denti doloranti. Passava le notti a smascellare digrignando tutto il digrignabile e certo doveva produrre quel rumore scricchiolante di ossa spezzate che conosceva fin dall’infanzia. Sua madre aveva lo stesso problema, tic o abitudine che fosse. La sentiva dalla stanza a fianco, dove dormiva da piccolo. Tant’è che lo aveva appunto chiamato qualche giorno prima, la mamma, per avvertirlo delle conseguenze: lo smalto, col tempo, si corrode e la polpa e i nervi restano nudi e scoperti. A quel punto qualunque cosa ci si ficchi in bocca fa male, un male sottile e penetrante, costante. Un male che va a diventare quotidianità, abitudine, compagnia fedele. Come il silenzio.
Sapeva bene perché gli succedeva. Si mente e si tace per amor di pace. Il non detto. Sillabe di rabbia che rimangono fra i denti e iniziano a spingere. La rabbia è un’energia, un motore che si accende da solo. E che da qualche parte deve andare. La gente si sfoga, si sa. In palestra, nei negozi, a letto, al bar, nelle migliori delle ipotesi. Poi c’è chi picchia altra gente, e chi gli animali. C’è chi si uccide, e chi minaccia di farlo. E c’è chi tace e digrigna i denti.
Plaisent aux dieux ces taciturnes qui serrent la vie entre leurs dents.
Quella sera entrando in casa scoprì che un lupo enorme era venuto a occupare metà della cucina. Lo guardava in silenzio e lui, preparandosi la cena, ricambiava di tanto in tanto sguardo e silenzio. Aveva, quel lupo, zanne smisurate che faceva rilucere esponendole in un ghigno inespressivo e fermo. Non aveva fame, non era interessato al cibo né crudo né in cottura, non era interessato a lui che cucinava. Stava lì, e lui lo stesso. Lo guardò mangiare e andare di là e coricarsi.
Quando si svegliò, il lupo era ancora lì.
E ce n’era un altro, e il suo mal di denti era raddoppiato. Il secondo, di lupo, era uguale al primo. Enorme, zanne splendenti, disinteresse, occhi fissi su di lui. Ora la cucina era piena e per farsi il caffè dovette passare tra i due corpi strisciando sul vello. Non aveva notato fino a quel momento che avevano portato con loro un forte odore di bosco. Si infilò sotto la doccia, l’odore non se ne andò e gli restò addosso. Si specchiò, controllò i denti. Aveva perso la punta dei canini a furia di sfregare, erano lisci come incisivi di scorta. In mezzo al bianco si vedeva una punta più scura, lo smalto se n’era andato. Aveva detto, la madre, che c’era un modo di farsi rivestire i denti di qualcosa che forse dava sollievo. Certo, c’era anche la possibilità di mettere quella cosa chiamata morso, per la notte, che risolveva il problema, ma lui non voleva saperne di morsi. Mai piaciuti, i morsi. E neanche le parole, a onor del vero, gli erano mai piaciute.
Quel mese toccava a lui ospitare la cena del giro di amici. Facevano una cena ogni quattro settimane, ogni volta a casa di uno dei dodici. Poteva essere difficile, o impossibile: aveva i lupi in casa e a malapena ci stava lui. Avrebbe dovuto spiegare il problema. Un problema di spazio, niente di grave. Scusate non posso, non ho spazio. Punto. Senza entrare in dettagli. Era la verità.
Aprì la bocca prima degli occhi quel mattino. Doveva sbloccare la mandibola, ma nel farlo si ritrovò la bocca piena di peli. Aprì gli occhi. C’era un terzo lupo, era in camera, sveglio, proprio di fianco al letto. E lo guardava. E ghignava, zanne luminose e tutto. Si alzò, lo scavalcò, rilevò l’odore di bosco penetrante, il dolore ai denti che andava facendosi sottile e profondo. Lo specchio non aggiunse dati considerevoli all’analisi. Digrignava i denti, ecco tutto. Per rabbia, sicuramente. Lo sapeva. Gliel’avevano detto alla visita del militare. Lei ha quella che chiamiamo rabbia sociale e sa, deve fare qualcosa, perché ha solo un anno per sistemarsi. Poi il suo corpo smetterà di crescere e anche la sua psiche si stabilizzerà, così com’è, e poi non potrà farci più nulla. Trovi un modo di incanalarla, questa rabbia, insomma, veda lei, faccia attenzione. Non aveva fatto niente, e ora pagava il fio in smalto sonante.
Sabato a merenda, incuneandosi fra i due lupi della cucina, raggiunse il frigo e prese delle ciliegie. Le poggiò in una ciotola, le sciacquò velocemente con l’acqua, prese un’altra ciotola per gettarci i noccioli, andò nel tinello, si sdraiò sul divano e iniziò a mangiarle. Sapevano di rosso, facevano male, immaginava quel succo dolce entrare dentro i buchi che aveva nei denti, li vide diventare rossi, non controllò allo specchio. Un respiro dietro il divano richiese un’indagine approfondita e fra le ombre ecco un quarto lupo che lo guardava con le zanne scoperte e bianche.
Al momento di coricarsi trovò il letto occupato. Un quinto lupo si era sdraiato proprio lì, e non poté fare altro che accucciarsi fra i suoi occhi e i suoi denti e l’odore di foresta. Il mattino dopo ne trovò un sesto in doccia, un settimo sul divano, un ottavo dietro il frigo, un nono sul tappeto, un decimo proprio davanti alla porta, nel corridoio stretto. Non poteva uscire, avvertì al lavoro. Non posso uscire, aveva detto, ed era la verità, fuori dai denti.
Non poteva fare gran che in casa, con tutti quei lupi. Al di là del fatto che aveva dieci paia d’occhi – e chissà quante zanne – puntati contro e che lo seguivano ovunque, quei lupi erano bestie ingombranti. Si muoveva strisciando, aveva i vestiti pieni di peli, non poteva sedersi né sdraiarsi. Andò a specchiarsi i denti. Rispetto a quelli dei lupi erano più gialli. Dritti, ma gialli e consumati da quel continuo sfregamento. Il resto della sua faccia, nello specchio, chiedeva attenzione, ma lui gliela negò. Guardava fisso i denti, deciso a non fare mai più nient’altro.
[racconto tratto da “Servirà qualcuno che ci legga, alla fine.” di Carlo Zambotti, Gorilla Sapiens Edizioni 2013]