Era l’ultima settimana d’agosto e la stava passando in provincia. Era un lunedì, per la precisione, un primo pomeriggio di lunedì, e aveva finito le sigarette. Accarezzò l’idea di lasciar vincere la pigrizia e di smettere di fumare piuttosto che impegolarsi in una caccia alla sigaretta impossibile, ma il figlio dell’ozio, cioè il vizio, cioè in questo caso il tabagismo, ebbe la meglio sul padre. Così salì in macchina e si avvicinò al paese più vicino. Il susseguirsi irregolare dell’imperterrito verde boschivo venne interrotto bruscamente da un trionfo di acciaio, cemento e insegne scadenti di carrelli e clown sorridenti. In un centro commerciale aveva buone probabilità di trovare un tabaccaio, così si diresse in quella direzione e parcheggiò nel piazzale arroventato dal sole. Corse dall’aria condizionata della macchina a quella del centro commerciale passando da una porta girevole in cui aliti siberiani lottavano con i morsi della canicola estiva. Una fitta alla schiena gli ricordò gli svantaggi dell’aria condizionata e quelli dell’età, che risultavano particolarmente evidenti specie se combinati insieme.
All’interno trovò un self service, una specie di mensa autogestita, o insomma un ristorante, un posto dove la gente andava a mangiare, gremito per l’appunto di gente che mangiava. Lo superò e indagò il resto dello spazio: c’era un grande supermercato, una piccola farmacia, un piccolo negozio di elettrodomestici, nessun tabaccaio. Ma l’aria condizionata era piacevole e gli fece venire voglia di un caffè. Ritornò all’area self service e si mise diligentemente in coda davanti alla cassa. La fila procedeva a rilento, la gente si lamentava del fatto che la coda procedesse a rilento, telefoni squillavano, odori di cibo e di sudore si mescolavano mentre dietro il bancone due striminzite cameriere rischiavano il collasso cercando di star dietro a tutti. L’uomo che voleva solo un caffè si rassegnò all’attesa indefinita ma fresca e si guardò in giro. A un tavolo lì vicino il viso crollato di un ottuagenario si confondeva con il piatto di pasta al ragù bianco che andava biascicando fra le dentiere complementari che aveva in bocca. Di fronte, quello che doveva essere il figlio assisteva disgustato allo spettacolo del suo stesso futuro. A un altro tavolo due che potevano essere muratori o idraulici o elettricisti o elementi bislacchi che avevano deciso di indossare polverose tute da lavoro blu coordinate ingoiavano senza masticare un vassoio di panini farciti di salame sudato accompagnati da mastodontici boccali di birra. Una ragazza dal volto angelico scacciava dalla prominente gobba che aveva sulla schiena le mosche che vi si posavano insistentemente mentre chiacchierava con la ragazza seminuda dal corpo pornografico e la faccia da bull-dog che divideva il tavolo con lei, impegnata a sua volta a spremere i foruncoli che le devastavano il lato sinistro del mento. Nessuna delle due sembrava attratta dal rispettivo piatto di insalata scondito che aveva davanti.
La fila intanto procedeva inesorabilmente lenta. L’uomo che desiderava un caffè iniziò a contare gli spiccioli che aveva in tasca, scoprendo di averne molti più del necessario e ordinando già mentalmente anche una brioche al cioccolato che intravedeva nella vetrinetta espositiva di fianco alla cassa. Sentiva come un ronzio in testa: l’aria era impregnata dal continuo chiacchiericcio degli avventori fra i tavoli. Sembrava un punto di conversazione più che di ristoro. Si stava giusto chiedendo come facesse la gente a parlare così tanto mentre era impegnata a mangiare, quando un bambino grasso lì a fianco che sbrodolava parole senza senso attraverso l’impasto semi-masticato che aveva fra i denti gli ricordò che era quantomeno possibile, se non proprio gradevole alla vista, parlare con la bocca piena. Venne il suo turno alla cassa e ordinò veloce alla cameriera sfiancata e pallida, con le occhiaie ricoperte da vari strati di qualcosa che sembrava gesso o farina, un caffè e una brioche. Quella sbadigliò, annuì, sbagliò a dargli il resto, si confuse con l’ordinazione, rispose a un insulto che le arrivava dall’altra parte del banco, inciampò in se stessa, maledì il giorno in corso e quello in cui era venuta al mondo e, infine, gli porse un esausto sorriso da contratto e un vassoietto con sopra un caffè e una brioche al cioccolato. L’uomo sorrise grato e si avviò verso il marasma dei tavoli cercando un posto libero in cui sedersi. Apparentemente l’unico disponibile era a un tavolo già occupato da un alligatore, seduto molto composto, quasi impettito, tutto intento a ingoiare un turista canadese.
— Posso? — chiese formalmente all’alligatore, il quale, essendo uno di quelli che teneva alle buone maniere, annuì col capo senza aprir bocca accompagnandosi con un gesto invitante della zampa a indicare la sedia vuota.
L’uomo si sedette al di sotto del chiacchiericcio perpetuo e attaccò vorace la brioche. Aveva un sapore come di salame sudato, ma il dolce cioccolato congelato dall’aria condizionata stimolava ciononostante la sua voglia di caffè. Amaro. Corto e amaro, come la vita. Così scherzava sempre, omettendo che, nella vita, si concedeva comunque le sue belle vagonate di brioche.
La mano del turista canadese – l’ultima parte visibile del pasto del suo dirimpettaio – sparì tra le fauci dell’alligatore, il quale, con aria commossa, si pulì con il tovagliolo e sorrise ampiamente all’uomo con il caffè.
— Mi scusi per prima, ma avevo la bocca piena —, disse con marcato accento straniero.
L’uomo, che aveva a sua volta la bocca piena della brioche, annuì sorridendo, partecipe. Terminò di masticare, fece un bel sorso di caffè e rispose:
— Si figuri, capisco. Le sue buone maniere e il suo accento mi fanno pensare che lei non sia di queste parti, sbaglio?
— Affatto, vengo dalla Louisiana. Sono in vacanza, qui in Europa. Mi tratterrò ancora qualche giorno, sto per finire le scorte alimentari ma ci terrei a vedere la mostra del Mantegna nella città qui vicino, prima di rientrare —, e così dicendo indicò con la zampa un pullman bianco decorato a foglie d’acero parcheggiato fuori nel piazzale. Dai finestrini del pullman, volti canadesi guardavano sorridenti il misero panorama del loro riflesso nelle grandi vetrine del self service.
— Capisco —, rispose l’uomo finendo il suo caffè.
— Anche i suoi modi mi sembrano differire parecchio da quelli delle altre persone qui attorno. È di passaggio? — si interessò l’alligatore.
— In verità sono originario di queste parti. Sono venuto a trascorrere qualche giorno in una casa di famiglia qui in zona. Di solito però viaggio molto, per lavoro.
— E di cosa si occupa, se non sono indiscreto?
— Import-Export —, rispose vago l’uomo, che già aveva voglia di un secondo caffè.
— E di che cosa, se posso insistere?
— Ombra.
— Ombra?
— Ombra —, confermò l’uomo, che ormai aveva la testa al prossimo caffè, ma che non voleva mostrarsi sgarbato con un alligatore tanto a modo. Sospirò, più per prendere fiato che per lamentarsi, prima di spiegare in che cosa consistesse il suo lavoro e mettere così fine alle insistenze velate del suo interlocutore e potersi poi dedicare al caffè seguente.
— Allora, sì. Ho una ditta di trasporti, di famiglia. La gestisco io, da anni. Abbiamo diversi automezzi, camion. Molti camion. Grossi camion. Sfrecciavano in giro per il mondo carichi di merci assortite, quando poi sopraggiunse La Crisi, come saprà, e le merci iniziarono a scarseggiare, così come iniziò a scarseggiare la necessità di camion. I grossi camion, poi, non servivano più a nessuno. E così, leggendo su un giornale che il futuro avrebbe premiato l’esclusività di servizio e l’eccentricità di offerta, pensai che tutti hanno bisogno di ombra. Anche le persone molto ricche, tipo sceicchi, star del cinema e politici. Così ho iniziato a trasportare ombra. I miei camion sono molto grossi, e fanno molta ombra. Ho avuto un po’ di difficoltà all’inizio ma ora il commercio ha ingranato per bene e abbiamo clienti sparsi dalla Scandinavia al Medio Oriente. Senza contare che offriamo prezzi concorrenziali, pur esportando vera ombra made in italy. Il fascino dell’artigianato italiano, come saprà, è irresistibile.
— È indubbiamente così. Anche se io ho un debole per il made in Canada… —, annuì l’alligatore, reprimendo un violento attacco di commozione digestiva per pura cortesia.
— Ma come riuscite a tenere i prezzi così bassi? Il trasporto in sé e per sé ha sempre avuto un costo, fosse anche solo di carburante, piuttosto alto. Ne parlo per esperienza: trasportare qui dalla Louisiana tutti quei canadesi mi è costato un capitale in benzina!
L’uomo sorrise comprensivo.
— Certo, il carburante. Il risparmio è proprio sul carburante: un camion vuoto consuma quasi un decimo di quanto consumerebbe lo stesso camion pieno. E l’ombra, ne converrà, non ha peso!
— Ah, è chiaro! — sorrise l’alligatore, convinto.
— Mi scusi, ora la lascio. Ho bisogno di un altro caffè. È stato un piacere. Buona permanenza!
— Il piacere è stato mio. Beh, buon caffè allora, e arrivederci.
— Arrivederci —, salutò l’uomo, mentre si infilava di nuovo nella coda immutabilmente lunga per ordinare il secondo giro di caffè.
Mentre aspettava e si guardava intorno, l’uomo notò attraverso le vetrine del centro commerciale l’alligatore che risaliva sul suo pullman farcito di canadesi e si metteva al posto di guida. Manovrando per uscire dal parcheggio il suo sguardo rettile incontrò di nuovo quello dell’uomo che aspettava il suo caffè. Strombazzò con il clacson a mo’ di saluto e girò l’automezzo. Dal finestrino posteriore grossi canadesi pasciuti sorridevano e facevano ciao con la mano mentre si allontanavano fino a diventare indistinguibili. L’uomo che aspettava il suo caffè ricambiò il gesto, agitando la mano verso l’orizzonte. Non aveva ancora risolto il problema delle sigarette. Sarebbe dovuto andare fino in paese e sperare che i tabaccai non fossero tutti chiusi per ferie. Certo, fuori faceva troppo caldo. Avrebbe dovuto comprarsi qualcosa di fresco da bere al supermercato prima di lanciarsi alla ricerca di sigarette. Eh sì.
In quel momento, la vecchina dietro a lui approfittò della sua distrazione e lo superò nella fila.
[racconto tratto da “Servirà qualcuno che ci legga, alla fine.” di Carlo Zambotti, Gorilla Sapiens Edizioni 2013]