Le opere di Franz Kafka descrivono invariabilmente situazioni angosciose, paradossali e oniriche, tanto che kafkiano è l’aggettivo che identifica, appunto, simili situazioni, specie se di ambiente burocratico. Si può senz’altro affermare che le persone che conoscono e usano correttamente il termine kafkiano siano molte di più di quelle che hanno effettivamente letto Kafka, quindi, per l’effetto combinato con la notorietà della Metamorfosi, nell’immaginario collettivo Kafka è associato a malessere, incubi e insetti con trascorsi di impiegato. Da quanto lo stesso Kafka dice di sé d’altronde, è corretto figurarselo introverso, ansioso, cerebrale, insicuro, avaro e vittima di fantasie spiacevolissime.
Però Kafka non aveva se stesso come principale riferimento per il significato della parola Kafka, ma piuttosto la famiglia paterna. In realtà, come chiarisce nella celebre Lettera al padre, tutti quei tratti che maggiormente lo caratterizzano, quali ansietà, pessimismo, introversione e arrendevolezza, sono caratteristici della famiglia della madre, i Löwy, mentre il temperamento tipico della famiglia paterna, i Kafka, è esattamente l’opposto. Dice infatti Kafka di sé che è un Löwy con un certo fondo kafkiano, che però non è mosso dalla volontà kafkiana di vita, di affari e di scoperta. Inoltre, afferma che l’inquietudine è tipica dei Löwy, sempre in opposizione ai Kafka che viceversa erano volitivi ed estroversi. Anzi, la natura particolarmente timorosa e negativa di Franz Kafka adulto sarebbe a suo dire dovuta proprio all’effetto che la prepotente estroversione del padre ha avuto sul suo delicato animo di Löwy in giovane età.
Credo che a Kafka suonerebbe quindi strano sentir designare situazioni ansiogene come kafkiane, visto che per lui kafkiano significa vitale, chiassoso, sicuro e soddisfatto di sé. Casomai le avrebbe chiamate löwyiane. Direi anzi che se Kafka potesse rivivere e scoprire il significato che viene attribuito all’aggettivo kafkiano, si troverebbe proprio in una di quelle situazioni paradossali e spiacevoli dette kafkiane, che sappiamo essere in realtà löwyiane.
Sempre fedele alla verità dell’Autore, io mi faccio un punto di usare il termine kafkiano in modo corretto, per aggettivare feste rumorose, lieti raduni familiari, gattini che giocano con gomitoli e simili cose. Tutto ciò sperando, dal basso, di incidere sul linguaggio generale. E credo, forse immodestamente, che questa attività produca i suoi frutti, perché vedo che sono considerato con interesse. Addirittura mi pare che amici e colleghi cerchino di moltiplicare le occasioni di ascoltare l’esatto impiego dell’aggettivo, mostrandomi a bella posta situazioni gioiose e vitalistiche e chiedendomi come le definirei. E non appena dico kafkiano, ridono e si danno d’intesa, evidentemente sbeffeggiando l’uso improprio del termine che si è affermato, e i moltissimi che rimangono in errore.
[racconto tratto da “Moby Dick e altri racconti brevi” di Alessandro Sesto, Gorilla Sapiens Edizioni 2013]