“Il lavandino o La strategia” di Davide Predosin

Mi stavo alacremente spazzolando i denti scrutando il mio riflesso attraverso lo specchio con aria di sfida – atteggiamento che assumo spesso per mantenere vivo l’agonismo e per impedirmi di incorrere nel proverbiale, letterario ripiegamento su se stessi che rende così schivi, diffidenti e poco socievoli – quando il lavandino su cui sempre con studiata e smargiassa disinvoltura mi appoggio – primo bianchissimo baluardo dell’igiene orale, nonché fido compagno di abluzioni mattutine – ha ceduto sotto il mio peso, atterrandomi di taglio, secco secco su entrambi i piedi.
Si consideri che il peso medio di un lavandino si aggira attorno ai 20-25 chilogrammi, e neanche a voler eroicamente allontanare da me l’innegabile disgrazia, scegliendo di minimizzare, contro ogni principio di realtà, l’acutissimo e quasi insostenibile dolore, avrei potuto illudermi di non essermi fratturato in maniera scomposta tutte le dita dei piedi.
Eccettuati forse, gli alluci. Ditoni, questi, incorsi dieci anni or sono – e, in questo caso, in maniera provvidenziale – in una patologia denominata alluce varo, infermità per cui le dita in questione convergono in direzione opposta rispetto a quella assunta nel caso dell’alluce valgo.
Caso volle quindi che tale morbosa deformazione permettesse loro, a causa anche, forse, della curva ovoidale del lavandino, di evitare miracolosamente l’impatto, uscendone pressoché indenni.
Insomma, a terra, disteso in mezzo ai cocci, valutavo il da farsi. Cercando innanzitutto di far breccia tra i miei stessi stimoli algogeni, nonché tra bestemmie e lacrime che disturbavano in maniera insopportabile il compìto sforzo di elaborare strategie atte a districarmi col minor danno possibile nella sfortunata evenienza.
Strisciare fino al telefono per chiamare un’ambulanza sarebbe stata un’ottima idea se avessi avuto ancora un fisso.
Strisciare in camera per prendere il cellulare e chiamare un’ambulanza sembrava possibile se non avessi appena finito il credito nel corso di una telefonata di cortesia al mio vecchio amico Manfred. Infine, invocare a gran voce aiuto era superfluo, essendo il 15 agosto e tutti i condòmini, compreso il portiere, al mare.
Solo una rischiosissima possibilità si affacciava alla mia, per quanto ancora scossa, vivace intelligenza. Nonostante il varismo che rendeva doloroso anche solo calzare un comune paio di babbucce, dovevo comunque sfruttare la provvidenziale condizione illesa del primo metatarso di entrambi i piedi, e una volta fatto leva proprio sulla testa ipercheratosica dello stesso – sostenendomi con le braccia sul bidet e bilanciandomi progressivamente – dirigermi al più vicino pronto soccorso correndo il più velocemente possibile in equilibrio sugli alluci come un basilisco piumato sull’acqua.
Se, grazie alla sua velocità e alla particolare conformazione delle quattro zampe, il soave rettile era in grado di correre sull’acqua anche per venti metri senza affondare, anch’io – per mezzo di calibratissimi passettini, tanto veloci da impedire che il peso del mio corpo gravasse sugli alluci fino a spezzarli, rendendo vana la strategia adottata, avrei raggiunto la struttura medico-ospedaliera, affidandomi finalmente alle cure del personale autorizzato.

[racconto tratto da “Alcuni stupefaceni casi tra cui un gufo rotto” di Davide Predosin, Gorilla Sapiens Edizioni 2014]

basilisco

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