Anni, da che aveva aperto il negozio, ne erano passati tanti. L’euforia iniziale, l’entusiasmo di fare, poi le prime delusioni, la fatica, le decisioni – esistono decisioni giuste? – le conseguenze, la fine, l’inizio, ed eccolo lì, nel suo negozio.
Gli piaceva, quando era bambino, correre per i campi di granoturco che stavano attorno casa. Abitavano in collina: lui, i suoi genitori, uno zoo di bestie. Nei campi di grano abitavano i ragni.
Vendeva di tutto nel suo negozio. Aveva iniziato come bar, poi aveva aggiunto un piccolo reparto alimentari, poi avevano iniziato a portargli – i piccoli artigiani di zona – oggetti da mettere in vendita per i turisti – per quanto ormai rari – poi qualche articolo di cancelleria, dei libri – che qualcuno li chiede sempre – e poi ananas. Vendeva ananas. Li importava direttamente da un’isola caraibica dove viveva un suo amico/parente che aveva una piantagione dove coltivava appunto ananas che poi spediva a lui – lì nel suo negozio. Il fatto è che erano ananas buonissimi. E li vendeva lui.
La verità, poi, è che è un po’ difficile spiegare quanto fossero buoni questi ananas. Bisognerebbe assaggiarli. Basterebbe un morso dato a uno di quegli ananas per capire ciò che le parole non possono né dire, né dare. Infatti – ed è un peccato – qui non vedo ananas.
Erano il suo orgoglio, quegli ananas. A volte, certo, nei pomeriggi bigi, nelle attese, nel buio, si interrogava sul suo destino buffo che lo aveva fatto nascere per vendere ananas. Certo era che alla gente i suoi ananas piacevano. Di più: piacevano a lui. Sia gli ananas, che la gente. E questa era la grande novità.
Correndo, da bambino, fra il granturco dove abitavano i ragni, aveva paura e correva urlando senza voce. Le foglie delle piante erano secche e taglienti come rasoi. Le ragnatele enormi. I ragni pure. Nell’umidità del suolo, fra l’erba alta, rane e rospi dai salti imprevedibili. E i serpenti? In più, la mancanza di prospettiva laterale, quella sensazione di essere verdecieco, l’aria soffocante, vegetale, satura di concime chimico o merda che sia, le gambe troppo corte di un bambino. Finché arrivava il prato, grande fresco enorme, correre lontano da lì, da quel calore malato, e poi sdraiati o seduti o solo fermi, respirare. Il caldo dentro, il sudore fuori che diventa freddo, scorre, freddo-su-caldo, i brividi, il cuore che scoppia, la testa vuota e rumorosa. La via attraverso.
Era sempre solo da bambino. Viveva in una casa isolata, non aveva fratelli, gli animali non lo interessavano – anche se lui interessava a loro, ma questo è un altro discorso – e così stava con sé. Con cose in testa, non si ricorda neanche più lui cosa. Progetti. Idee. Pensieri. Le solite cose.
Nel negozio il buio si arrampicava sugli scaffali, di barattolo in barattolo conquistava il suo spazio. L’uomo al bancone, lo sguardo sorridente fisso alla vetrina – non si sa se guardi il dentro o il fuori – ha forse le palpebre calate – ma ha gli occhi chiusi? – immobile. Il buio avanza.