Dalla poppa della nave osservo la terra allontanarsi. Mi chiedo se tornerò mai indietro. Potrei farlo ora, penso, potrei tornare a nuoto, subito, anche se forse affogherei, considero con un po’ di apprensione. Nonostante Miscelatore, il cane del capitano, scodinzoli pasquale ai miei piedi – suggerendomi che, con fiducia, se voglio, posso fare qualsiasi cosa – scelgo che no, non ho voglia di bagnarmi. Lo accarezzo sulla testa e scuotendolo con affetto per la florida pappagorgia, lo ringrazio di cuore dell’incoraggiamento e mi allontanano dal parapetto raggiungendo il punto più affollato della nave.
Sembrano tutti aver dimenticano la partenza. Si godono il viaggio, bevono, mangiano panini imburrati, parlano di questo e di quello, ma soprattutto di ciò che faranno all’arrivo. A giudicare dagli sguardi confidenziali che alcuni mi rivolgono, forse conosco qualcuno; non si guarda chiunque ridendo, continuando a partecipare con soddisfazione a quella che ha ormai l’aria di essere una festa.
A un tratto, qualcuno, alle mie spalle, mi copre gli occhi con i palmi delle mani e mi invita a indovinare la sua identità; camuffando la voce come se parlasse attraverso il naso. Chi sa chi è che ama giocare agli indovinelli in pieno mare, mi chiedo e, improvvisando, invento un nome femminile a caso. Mi giro, e al posto di una donna, trovo un uomo con la barba, che scuote la testa e mi dice che fa niente, forse la prossima volta sarò fortunato, e mi porge una pinta di birra dicendo ecco qua, come se gliel’avessi chiesta io, una birra; io che non bevo birra, lo sanno tutti, si vede che non ho la faccia da birra, che mi fa venire l’asma. Cerco di uscire dal capannello, poco prima festoso, ora un po’ statico, come dopo un’esplosione; anche la musica, prima assordante, il ritmo, due battute fa sostenuto, sembrano ora sospesi, come se il dj stesso aspettasse una rettifica, una mia rassicurante confessione. Vorrebbero tutti dica che stavo scherzando, penso, che non mi permetterei mai, in circostanze tanto spensierate, di non rispettare le più elementari consuetudini conviviali. Ma nonostante mi tengano d’occhio – in tralice, ma mi tengono d’occhio – non me la sento. Né di prendere la birra – che l’uomo barbuto, scioccato, continua a porgermi tremando – né di dire nulla che suoni conciliante, accelerando l’inevitabile piega che spesso queste cose finiscono per prendere.
Tutti, infatti, sempre più bravi a fingere di chiacchierare – a parte l’uomo barbuto, ammutolito e scosso fin dentro i più intimi recessi del barbone – dopo aver preteso delle scuse, sembrano all’unisono aver scelto che oggi, domani, dopodomani e il giorno dopo fino all’arrivo, sarò io il guastafeste che ricorda a tutti, con ogni sua odiosa ripulsa, che una volta a destinazione col cazzo che sarà divertente come sembrano tutti fingere di credere.